Sant’Agostino è stato attuale per tutte le epoche della storia dell’Occidente. Dal 430 d.C., anno della sua morte (era nato il 13 novembre del 354 a Tagaste, l’odierna Souk-Ahras, in Algeria) egli ha sempre costituito un punto di riferimento: per il Medio Evo, per l’Umanesimo del quindicesimo e sedicesimo secolo, per l’età barocca, per il Romanticismo dell’Ottocento fino ai pensatori interpreti delle grandi domande teologiche e filosofiche del ventesimo secolo.
La ragione di questo va ricercata certamente nel fatto che egli è stato considerato, già da vivente, un grande dottore della Chiesa, cioè un autore che ha aiutato a prendere coscienza delle strutture e dei nodi su cui si organizza l’esperienza del cristiano.
Ma c’è un motivo ulteriore e ancora più decisivo della sua fortuna ed è, io credo, la natura e lo stile del suo pensiero. Per Agostino il rapporto con se stesso, la questione di chi egli sia è il punto originante delle sue domande e del suo discorso. Che egli si interroghi sulla bellezza del mondo o sul male che contraddittoriamente vi si annida, che egli cerchi la felicità o cerchi di formulare una teoria sull’uomo e sulla società, il suo dire non si limita a un mero discorrere sui problemi, non si limita a fornire dottrine e visioni della realtà.
S. Agostino piuttosto agisce tali discorsi: la sua parola ha la forma dell’invocazione, del grido, dell’appello, anche quando parla di una verità che potrebbe essere intesa come oggettivabile, come l’ordine della natura o l’esistenza di Dio. Cioè per lui la parola è un atto, è detta sempre da un parlante a un destinatario, da un io a qualcun altro. Nella natura o nell’altro essere umano egli scopre, e dà parola, a un’origine, a un movente che è all’opera in lui stesso, che lo urge e dà forma e corpo al suo discorso.
Nella sua opera Sulla Trinità – in cui egli tenta di circoscrivere il generarsi dell’idea di Dio – esclama, in modo drammatico: «Ecce enim qui haec quaero» : ecco, sono io, pensate a me che cerco questo. Qui sta anche il motivo del fascino che S. Agostino ha esercitato sui non credenti, su pensatori e intellettuali lontani dall’esperienza cristiana o anche atei professi: il linguaggio di Agostino si torce sul problema del suo stesso generarsi, si organizza e soggiace a un elemento, misterioso, in senso puramente razionale di imprendibile, ma che dà forma alla sua esperienza.
Il fascino esercitato anche oggi sul pensiero “laico” consiste nel testimoniare la nozione e l’esperienza di un io radicalmente diverso dall’io che sembra la forma disperatamente insuperabile del sapere contemporaneo: un io autonomo possessore delle sue parole e dei suoi atti, non scalfibile da nulla, amministratore borioso dei propri giudizi. L’io di Agostino è un io che si coinvolge e si spezza nel proprio discorso. Fino a poter essere, nel ritmo retorico e teatrale della sua prosa, difficilmente leggibile se non si entra in sintonia con lui.
La durezza e la drammaticità del suo linguaggio sembrano introdurci oggi, nell’assenza generalizzata di un’unificazione e nella devastazione di un ordine dell’sperienza, in un diverso approccio all’io: approccio che può essere suscitato dall’incontro con un “non proprio”, nella cui alterità ingestibile un soggetto possa attingere la sua risorsa vittoriosa.