Paolo Grossi in un bel libro di qualche anno fa – L’ordine giuridico medievale – ha posto l’accento sulle dinamiche culturali che guidavano la società medievale. Nell’età di mezzo chi era chiamato a governare la cosa pubblica non doveva tanto puntare sulle sue innovative qualità di leader. Per la buona riuscita dell’impresa egli doveva piuttosto farsi tramite, interprete di un ordine buono che era già presente nel mondo e a cui era necessario conformarsi.
Ogni attività umana poggiava su quest’ordine unificatore e la fiducia che ciascuno accordava alle istituzioni, dipendeva dal fatto che esse si presentassero come un riflesso, pure imperfetto, di tale armonia.
Uno strumento permetteva a quest’ordine di entrare in contatto con la realtà umana. Si trattava del simbolo. Il simbolo, nella sua accezione più ampia, era qualcosa di estremamente concreto, un oggetto, ma anche un’azione, un rituale, che, oltre alla semplice funzione strumentale, rimandava ad un ideale superiore o, meglio ancora, lo incarnava, lo rendeva materialmente presente. Così la Carità divina poteva riflettersi nel colore di un vestito, la Povertà in un determinato cibo, l’Umiltà in un’attività lavorativa particolare  e così via.
Ad esempio, in molti comuni medievali italiani, presso il palazzo sede del potere pubblico, era gelosamente conservato un libro manoscritto che conteneva le consuetudini e gli statuti della città. Nella mente dei cittadini tale codice, al di là della sua funzione strumentale, ossia quella di conservare un testo legislativo consultabile, rappresentava in sé simbolicamente uno dei pilastri portanti su cui si fondavano i diritti comunali. Esso incarnava la certezza di una libertà faticosamente raggiunta e apparentemente inalienabile. L’oggetto stesso, che soltanto in pochissimi avevano potuto materialmente sfogliare, veniva quindi investito di un valore superiore al suo pratico uso. Al di là del contenuto esso rappresentava un elemento fondamentale per l’identità di un popolo o, meglio ancora, la garanzia su cui si fondava la fiducia di tutti verso un governo.
Naturalmente non sempre i simboli erano utilizzati in modo corretto e leale. Dante nel canto XXIII dell’inferno, nella bolgia degli ipocriti, incontra due strani personaggi “colorati”, che camminavano lentamente sopraffatti dal peso di pesantissimi abiti monastici con i cappucci abbassati sugli occhi. Tali vesti in superficie di uno splendente colore dorato, erano all’interno foderate di piombo. Si tratta dei frati gaudenti Catalano dei Malavolti e Loderigo degli Andalò. Secondo una pratica molto comune in età comunale, essi erano stati scelti nel 1266 in qualità di religiosi, e quindi per la loro imparzialità, quali rettori di Firenze nel tentativo di trovare un accordo tra le diverse fazioni che si fronteggiavano in città. La loro opera era stata però tutt’altro che onesta e super partes. Essi avevano, infatti, favorito partigianamente un gruppo di potere a scapito degli amici di Dante. Il giudizio del poeta, testimoniato dal contrappasso che essi subiscono, non è semplicemente un giudizio moralistico del tipo: “Belli fuori, ma brutti dentro”, o meglio ancora: “Sepolcri imbiancati”. Il riferimento all’abito è estremamente significativo. Dante prende il saio quale simbolo concreto che comunicava la natura essenziale dei due religiosi che era quella di portare la pace. Essi però avevano usato il loro abito per truffare la fiducia dei cittadini. Un simbolo, che tutti conoscevano e a cui tutti avevano accordato fiducia era stato rotto, la finzione aveva preso il posto dell’ideale.
Entrambi gli esempi, per quanto diversi, mostrano come i simboli nel medioevo non fossero semplicemente uno strumento di propaganda o di comunicazione spicciola per attirare un consenso effimero. Essi agivano più profondamente lanciando un ponte che metteva in comunicazione i singoli con quei valori identitari che erano la solida base della fiducia comune.
Dinamiche molto simili applicate i giorni nostri non sempre danno i risultati sperati. Basta osservare in Francia il fallimento del referendum sulla costituzione europea del giugno 2005. In quell’occasione la costituzione non è stata bocciata in quanto testo giuridico, cioè perché non si è condiviso questo o quell’articolo. Nonostante gli sforzi del governo francese in pochi l’avevano veramente letta. Ad essere rifiutata è stata piuttosto l’idea di Europa che il testo costituzionale simbolicamente e quindi sinteticamente veicolava. Il simbolo ha quindi fallito il suo compito perché non si è data fiducia all’ordine superiore in esso riflesso. O forse, ancora peggio, l’uomo comune di questo fantomatico ordine non ha neppure colto l’esistenza.



 

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