Nella trasmissione “Porta a Porta” di Bruno Vespa dell’altro ieri, dedicata al caso di Eluana Englaro, il sottosegretario Eugenia Roccella ha ricordato lo sciopero della fame che, all’inizio degli anni Ottanta, coinvolse in Irlanda del Nord alcuni esponenti dell’IRA capeggiati da Bobby Sands, portandoli alla morte. Da alcuni giorni sul blog “Bioetiche”di Chiara Lalli e Giuseppe Regalzi, favorevole alla sentenza della Cassazione e, in generale, a «una visione radicalmente laica e liberale, anzi in sostanza libertaria» in ambito bioetico, campeggia un “post” in cui vengo chiamato in causa a proposito di quella vicenda dei “troubles” irlandesi; vi si cita il caso, che ho raccontato nel libro “I cristiani d’Irlanda e la guerra civile”, del sacerdote cattolico Brian Mc Creesh, il quale si assunse la responsabilità di sostenere il fratello Raymond, compagno di lotta di Sands, durante il coma e fino al tragico epilogo del suo sciopero della fame, rifiutando perciò il consenso alle autorità britanniche di procedere alla nutrizione artificiale. Secondo l’autore del “post”, quindi, nel caso ricordato «la Chiesa cattolica mostrò un assoluto rispetto per il diritto all’autodeterminazione di McCreesh (morto pochi giorni dopo), a costo di subire in seguito una violenta polemica da parte della stampa inglese». Pur dovendo ammettere che «più tardi la gerarchia ecclesiastica fece pressione sulle famiglie perché chiedessero assistenza medica per gli hunger strikers entrati in coma», nel blog si vuole insistere sul concetto che la Chiesa «non chiese mai che venissero alimentati contro la loro volontà o contro quella dei loro cari», e permise in seguito la celebrazione dei funerali religiosi, concludendo, a suo modo, ironicamente che «i tanto celebrati “valori non negoziabili” possano risultare sorprendentemente flessibili a seconda delle contingenze politiche».
Il tono generale pare sia qui quello di enfatizzare che uno “storico cattolico”, come vengo esplicitamente definito, abbia rilevato un’apertura della Chiesa cattolica irlandese alla autonomia di scelta degli individui sulla propria vita (anche nel caso di un sacrificio finale di essa). Sembra così questa un’occasione propizia per ripetere alcune distinzioni non formali, ma di sostanza, sulla vicenda di Mc Creesh e in generale sulla condotta della Chiesa. Certamente la posizione del sacerdote nordirlandese (e dei suoi famigliari) fu allora quella di rispettare le volontà del fratello scioperante , sospettando addirittura che egli fosse stato drogato dai carcerieri per indurlo a desistere dalla protesta. Ed è altrettanto vero che Padre Brian si rivolse allora al vescovo Thomas O’Fiaich – notoriamente filo repubblicano (aveva visitato gli H-Blocks del carcere di Maze dove Bobby Sands e i suoi compagni di lotta erano rinchiusi) –, il quale condivise tale sospetto.
Da ciò, a mio avviso, non si dovrebbe però desumere che la Chiesa cattolica-romana d’Irlanda abbia assunto per questo, una posizione ufficiale in qualche modo propensa al testamento biologico, ma semplicemente che due soli membri del clero nordirlandese appoggiarono, in quel frangente, il diritto di sciopero di un seguace dell’IRA, durante il braccio di ferro con il primo ministro Thatcher per il riconoscimento dello status di prigionieri politici. Un episodio, effettivamente, che si prestava a potenziali strumentalizzazioni: proprio nelle pagine del mio libro riprese dal blog , ho anche scritto che «se all’interno dell’attivismo repubblicano la gerarchia [cattolica] era abitualmente criticata per la sua condanna dello sciopero e la sua complessiva avversione nei confronti dell’IRA, ora essa veniva accusata – attraverso un elemento strategicamente significativo in quanto cappellano del carcere di Maze – di un’azione opposta, cioè di avere spinto alla morte un detenuto che portava avanti la causa repubblicana: in sostanza, da una parte era criticata nella comunità cattolica per non tutelare gli interessi dei suoi fedeli che rivendicavano parità di diritti civili, dall’altra era additata nella comunità protestante di spalleggiare i repubblicani, spingendoli addirittura oltre il rispetto della vita e della volontà dei singoli». E concludo: «Mentre, nel primo, caso era in discussione l’atteggiamento pastorale e sociale, nel secondo ci si appellava alla rivendicazione cristiana per la sacralità dell’esistenza umana. Si comprende, quindi, come in questa delicata situazione, la Chiesa cattolica fosse chiamata a muoversi con cautela ma lucidità, attraverso un percorso irto di trabocchetti e pressioni negative» (p. 104).
Bisogna qui ricordare soprattutto che fu il documento della Conferenza Episcopale Irlandese «Statament on Northern Ireland», dello stesso 1981, ad esprimere allora la posizione ufficiale dell’istituzione ecclesiastica: non solo condannò senza attenuanti gli scioperi della fame e ne chiese l’immediata sospensione, ma attribuì loro la responsabilità politica di aver fatto crescere la divisione e la violenza tra la comunità cattolica e quella protestante. Inoltre, pochi anni prima, nella lettera pastorale Human Life is Sacred del 1975, i quattro principali arcivescovi cattolici irlandesi avevano ribadito con forza la concezione cristiana del valore assoluto della vita umana e la sua intangibilità (p. 46).
In tutto il mio libro vi è appunto lo sforzo di distinguere tra le posizioni di alcuni singoli prelati ed esponenti del clero dalla posizione collegiale dei vescovi irlandesi e in genere della Chiesa cattolica, che se nel caso dei “troubles” irlandesi commise indubbiamente degli errori – peraltro anche ammessi recentemente nel testo “Sectarianism” (1993) – non mi pare abbia mai ceduto alle strumentalizzazioni del movimento repubblicano e tantomeno sposato quel modello di “redenzione attraverso il sacrificio” che Sands e i suoi compagni vollero portare alle estreme conseguenze, ammantando di una coloritura religiosa una scelta di martirio che, nel suo eroismo “laico”, fu tutta loro ed ebbe un significato assolutamente politico.