Più lo si legge e più il discorso di Benedetto XVI al Collegio dei Bernardini di Parigi, lo scorso 12 settembre, rivela aspetti nuovi e possibilità di ulteriori approfondimenti. Il Sussidiario ha chiesto a Giorgio Picasso, già docente di Storia Medievale all’Università Cattolica di Milano e grande studioso del mondo benedettino, di approrfondire alcuni passaggi. Il Papa ha citato il monachesimo occidentale come il luogo in cui veniva formandosi una nuova civiltà, mentre l’Europa viveva gli sconvolgimenti delle migrazioni germaniche e dei nuovi ordinamenti statali. Egli però ha sottolineato che i monaci non si preoccuparono innanzitutto di “creare” una cultura ma, nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: “impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa”. Ci può aiutare a capire come questo impegno si è realizzato e come abbia potuto avere conseguenze materiali tanto fondamentali per la nascita dell’occidente medievale.
Il papa ha detto: «Vorrei parlare delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea». Che ruolo il monachesimo ha svolto nell’origine della teologia occidentale, nella nascita della cultura europea? Il Papa accenna molto bene al problema della dissoluzione del mondo antico. Il mondo antico aveva una cultura elevatissima nel campo letterario (basta ricordare Virgilio tra i latini). Però nel declino dell’impero anche questa scuola è andata in briciole; con l’impero si è sfaldata anche questa cultura, che non era di per sé negativa, era un patrimonio che bisognava salvare, ma che le istituzioni del mondo classico, compresa la scuola, non erano più in grado di sostenere. Ora, il monachesimo, che in san Benedetto ha un modello, che cosa ha fatto? Ha capito che c’erano dei valori in quella cultura, ma che bisognava riviverli. Ecco perché anche dom Leclercq nel suo volume citato dal Santo Padre in quell’occasione – Cultura umanistica e desiderio di Dio – dice che i monaci hanno evangelizzato l’Europa con la grammatica e il Vangelo. Perché la grammatica? Perché l’impianto letterario doveva venire dalla cultura classica, spogliata però di quel contesto, di quelle istituzioni che non avevano più l’antica validità, per essere invece inserito nel Vangelo.
Nella confusione di quei tempi, in cui niente sembrava resistere, i monaci avevano una preoccupazione che non era quella di salvare la cultura classica, bensì la ricerca di Dio, che si ricerca soprattutto nella Parola, nella Bibbia, nel Vangelo. Ora, per accedere a questa conoscenza era necessario conoscere la grammatica, le strutture retoriche necessarie per carpire quello che Dio aveva detto. Quindi l’oggetto non è più il contenuto della cultura classica ma il suo metodo: la grammatica, applicata al Vangelo. Ecco quindi che i monaci, pur avendo scelto come scopo della vita la ricerca di Dio – quaerere Deum (hanno lasciato la famiglia, il mondo per cercare Dio, non per cercare la cultura) – si sono accorti che per arrivare a Dio era utile usare quello strumento. Quindi il patrimonio filosofico, letterario, filologico del mondo antico fu salvato dal monachesimo, che lo ha rivissuto e riproposto alle genti che venivano da un mondo senza cultura.
La cultura classica non era in grado di mantenere la vivacità che aveva ai tempi dell’impero romano. D’altra parte le popolazioni germaniche, che non erano del tutto aliene da una certa cultura (i Goti si erano fatti tradurre la Bibbia nella loro lingua), certamente non erano in grado di riprendere in mano questa tradizione nel suo complesso. Allora il monachesimo salva questi valori e li ripropone con un contenuto cristiano. Sono celebri le opere di questi autori medievali, monaci, che nel monastero hanno imparato che cos’era la storia, hanno imparato a conoscere i generi letterari, hanno imparato una forma di canto, eccetera.
Ora, questi valori sono alla base della civiltà e della civiltà europea. Senza queste basi – il cui riconoscimento a volte rimane un po’ opaco nella cultura contemporanea – non avremmo potuto avere lo sviluppo della civiltà occidentale; essa ha sì contenuto cristiano, però le sue forme espressive sono quelle della cultura classica, applicate al Vangelo. Forme poi sviluppate in termini e concetti che hanno salvato quella stessa cultura, la quale ha rappresentato poi la base della cultura medievale. Ciò ha evidentemente avuto conseguenze notevoli, perché senza cultura non c’è una civiltà.
In un altro passo del suo discorso, Benedetto XVI ha posto l’accento sul lavoro dei monaci. In particolare, ha precisato come il lavoro manuale fosse considerato un aspetto costitutivo della somiglianza degli uomini con Dio, seguendo l’esempio di Cristo: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero». Questa concezione (che costituisce una novità rispetto alla mentalità greco-romana) di un Dio che lavora, disposto cioè a «sporcarsi le mani con la creazione della materia», ha influito enormemente sull’esperienza monastica. Senza questa cultura del lavoro – dice il Papa – «lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili». In pratica, come si è sviluppato nell’esperienza monastica questo ideale del lavoro? Come gli uomini dei primi secoli del medioevo ne sono stati influenzati?
Dobbiamo ripensare che cos’era il lavoro nel mondo antico. È sempre questo paragone che ci aiuta a capire quello che viene dopo. Ora, nel mondo antico il lavoro era considerato come qualche cosa di negativo, di meno dignitoso, era riservato agli schiavi. Per noi la parola “ozio” è certamente negativa, ma in origine, per il mondo classico, era positiva. Il negativo era il “neg-ozio”, la negazione dell’ozio. Quindi il lavoro di carattere manuale era demandato agli schiavi; agli intellettuali, ai colti era riservata la contemplazione, il riflettere. Il monachesimo si è trovato di fronte a questa concezione e ha dovuto reagire. San Benedetto, con tutti i monaci, ha reagito – nella sua regola – elevando il concetto di lavoro.
In un primo tempo il lavoro era concepito come uno strumento, un mezzo per rimanere più in intimità con Dio. Si dice che i monaci lavorassero con le mani e che poi disfacessero quello che avevano fatto: sono leggende, questo non accadde mai. Ma è vero che a poco a poco, soprattutto attraverso la regola di san Benedetto, si capì che il lavoro aveva un valore positivo: certe ore erano dedicate alla preghiera, certe al lavoro manuale. «I monaci sono veramente tali quando vivono con il lavoro delle loro mani, come hanno fatto i nostri padri e gli apostoli»: è chiarissima l’affermazione di san Benedetto.
Nel suo discorso Benedetto XVI si riferisce in modo particolare al concetto di lavoro che Gesù esprime nel Vangelo: «Il Padre mio opera». Certamente, anche la Creazione è un concetto che implica, come dice bene il Papa, un Dio che viene a lavorare, che quasi si sporca le mani per modellare la sua creatura, che poi diventa sua veramente quando vi ispira il principio spirituale dell’anima. Nelle regole monastiche questo viene espresso con l’idea che tutti devono lavorare, che il lavoro non è riservato solo ad alcuni. Certo, poi c’erano compiti diversi, però nella tradizione monastica il lavoro, come d’altra parte accade ancora oggi nei grandi monasteri, faceva parte dell’impegno di tutti i monaci. Il lavoro della terra, il prosciugare paludi forse è stato un po’ esagerato da una visione romantica del monachesimo, però di fatto, quando era necessario lavorare nei campi, lo si faceva, e andavano tutti i monaci.
San Bernardo – per citare questo grande monaco al quale è intitolato il Collegio dei Bernardini di Parigi – dice che lui ha imparato di più sotto le querce d’estate, nel pieno del solleone, che non sui libri. Cosa vuol dire? Che il lavoro viene nobilitato a strumento utile per la propria elevazione, per la contemplazione di Dio. Questo è molto importante per la costruzione dell’Europa, perché qui, e non prima, troviamo un concetto molto positivo del lavoro; un concetto che, se vogliamo, è anche teologico. Se apriamo la Bibbia, vediamo che Dio ha lavorato sei giorni e il settimo si è riposato. È molto chiaro: ha lavorato sei giorni. Che cosa ha fatto in questi sei giorni? Secondo il racconto biblico ha separato le acque dalla terra, ha creato gli astri, ha creato gli animali, le piante, ha creato l’uomo e ha visto che tutto era cosa buona. E poi il settimo giorno – il sabato – si è riposato. Ha lavorato, la creazione è un lavoro. I monaci che leggevano la Bibbia, che imparavano a vivere del lavoro delle loro mani seguendo questo esempio, evidentemente non potevano non averne che un concetto molto, molto positivo. Che poi ha avuto enormi sviluppi nella cultura moderna e contemporanea. Chi ha inserito il lavoro su questi binari di civiltà sono stati per primi i monaci. Per essi il lavoro non era qualcosa da evitare, ma come da ricercare per maturare, per realizzare veramente se stessi.
Nella regola di san Benedetto ci sono anche altri criteri, altri aspetti del lavoro manuale che vengono sottolineati. Per esempio si dice che il lavoro deve essere “redditizio” e non soltanto per occupare qualche ora. Un lavoro i cui prodotti si possono anche vendere, però – la regola prescrive – ad un prezzo minore di quello con cui sono sul mercato; ma non minore fino al punto di fare concorrenza!
Oltre al lavoro manuale, i monaci hanno fatto anche – come ha ricordato il Papa citando sempre Leclerq – un grande lavoro culturale. Quali erano le caratteristiche di questo lavoro?
Nel discorso parigino si vede proprio la vera cultura di Benedetto XVI. Egli ha una propria visione del monachesimo e cita il libro più classico che la cultura moderna ha prodotto sulla civiltà monastica medievale. Il titolo in italiano è stato tradotto Cultura umanistica e desiderio di Dio che dice sì la sostanza, ma non è bello come l’originale francese: L’amour des lettres (i monaci amano le lettere, gli autori classici, Virgilio) et le desirè de Dieu (perché sono animati dal desiderio di Dio). L’amore delle lettere ed il desiderio di Dio: questa è l’essenza della cultura benedettina e il Papa l’ha assimilata certamente nella sua Baviera, dove ci sono tanti celebri monasteri benedettini che ha imparato a conoscere e ha frequentato. Qui rivela proprio la sua sensibilità monastica: attraverso lo studio e la cultura ha apprezzato altamente il monachesimo medievale. Come, tra l’altro, è successo anche a molti laici, penso per esempio a Giorgio Falco, ebreo, il cui capitolo più bello della sua Santa Romana Repubblica è proprio quello dedicato al monachesimo occidentale. Non sorprende, quindi, il continuo ritorno al testo di Leclercq nel discorso del Papa. Continua a riproporlo e a rivelarne i contenuti. E la sintesi del messaggio di Leclercq è proprio questa: i monaci hanno amato le lettere in funzione di Dio.
I monaci oltre al lavoro manuale hanno fatto anche un grande lavoro culturale? Certamente, ma il lavoro del monaco che copiava un codice – opera di grande valore culturale – era considerato alla stregua di quello del monaco che cucinava o che andava a raccogliere la frutta e la verdura. Nella regola di san Benedetto hanno lo stesso valore. «In monastero siamo tutti uguali – afferma san Benedetto – liberi e servi, goti e latini, perché serviamo all’unico Signore». Sempre san Benedetto, al monaco goto che aveva perduto il falcetto di lavoro, dopo averlo miracolosamente recuperato dal lago, dice: «Ecco, lavora, e non rattristarti!». Ecce labora: i monaci hanno fatto un grande lavoro culturale, ma un lavoro che rientra nel grande disegno di continuare la creazione di Dio. Davanti a Dio, secondo la regola, tutti i lavori – materiali e non – sono egualmente meritori.
Le caratteristiche di questo lavoro – dentro le più diverse circostanze – erano proprio l’uguaglianza di tutti, la necessità di vivere con il lavoro delle proprie mani, la ricerca di Dio. Il monaco è anche e innanzitutto un testimone di fede. Il fatto stesso che ci fosse un monastero era una testimonianza che nel medioevo diventava anche una predicazione. La popolazione delle campagne, vedendo un monastero dove si viveva «in un altro mondo», con altri valori, si trovava davanti ad una specie di predicazione. La chiamavano – può far sorridere – «predicazione muta». Si diceva che i monaci, anche se non parlavano, predicavano, perché offrivano l’esempio di una vita pacificata, in pace con Dio, di fronte a momenti di turbamenti, di guerre, di contrasti, di cui pure il medioevo fu pieno. Il monastero era una visione di pace. In tanti di essi, all’ingresso, c’era scritta – e c’è scritto ancora oggi – la parola pax: un luogo di silenzio, in cui l’uomo si trova riconciliato con Dio. Non una teoria quindi, ma una prassi.
(Intervista raccolta da Andrea Beneggi)