Dopo molti anni di lavoro di restauro torna a vedere la luce il dipinto di Raffaello La Madonna del Cardellino. Si tratta di un evento epocale per la storia dell’arte italiana dal momento che d’ora in poi sarà possibile al pubblico rimirare l’opera restituita ai colori originali e depurata da contaminazioni e restauri precedenti. Il professor Marco Ciatti, dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze ha guidato l’equipe di esperti che si sono dedicati a questo lungo lavoro



Professor Ciatti, potrebbe illustrare il valore di un simile lavoro di restauro?

Il restauro in questione è davvero molto importante. In primo luogo perché si realizza su un’opera di Raffaello, e non c’è bisogno che mi dilunghi a spiegare l’importanza di questo artista, e poi perché il dipinto era estremamente difficile da valutarsi per le condizioni di conservazione in cui era ridotto. Questo perché, come racconta già il Vasari, si tratta di un lavoro rimasto coinvolto nel crollo della casa signorile della famiglia per la quale Raffaello lo ha dipinto. In seguito a tale incidente l’opera era stata ritrovata a pezzi fra le macerie ed era stata fatta restaurare nel ‘500 inoltrato.



Naturalmente, nei secoli che seguirono, furono innumerevoli gli interventi di ritocco, di ridipintura e di patinatura per tentare di nascondere questi problemi sottostanti l’opera. Alla fine tutta questa massa di materiali e di vere e proprie ridipinture nascondevano in buona parte la pittura di Raffaello.

Agli occhi di un visitatore inesperto che cosa è visibilmente cambiato rispetto a prima?

Quello che prima appariva come qualcosa sì di raffaellesco, per la celebrità del suo stile e per la autografia, lo si poteva vedere soltanto attraverso della materia impropria.

Ora invece si ricontestualizza. La policromia è ritornata quella di tutte le altre opere del periodo fiorentino di Raffaello e poi, soprattutto, vedendolo ora così nitido, si può riuscire a cogliere bene quanto forte, almeno secondo me, sia stato l’influsso di Leonardo. Questo perché ci sono dei dettagli, nella morbidezza dei carnati, nel paesaggio che è emerso sulla sinistra del dipinto, che dimostrano quanto Raffaello abbia appreso la “nuova lezione” di Leonardo, il quale, proprio in quegli stessi anni, stava diffondendo il suo stile. Il dipinto è del 1505 o al massimo 1506 e sono proprio gli anni della presenza di Leonardo e Michelangelo a Firenze e della loro grande scuola nella quale Raffaello viene a perfezionarsi.



Dunque si tratta di uno dei primi lavori di Raffaello

È un’opera giovanile del periodo fiorentino eseguita prima che, nel 1508, egli si trasferisca a Roma e da lì spicchi il volo con le grandi imprese per il papa, compia il suo ciclo di affreschi, e diventi il grande Raffaello che tutti conosciamo.

Giornali e media affermano che il restauro è durato parecchio tempo, è così?

Sì, anche se in realtà i giornali hanno misteriosamente ingigantito un po’ i tempi. Uno di questi parla di vent’anni, altri giornali di dieci. In verità ci sono voluti otto anni, quindi comunque un lavoro lungo, di cui due dedicati alle ricerche preliminari e altri sei di restauro vero e proprio.

Qual è la parte più difficile di un restauro in opere così delicate e importanti?

Dipende dalle singole situazioni. In questo caso più di tutto è stata difficile la pulitura. Perché bisognava decidere come intervenire e non è, posso assicurarlo, una scelta facile. Prima di tutto occorre comprendere bene la situazione storica e l’utilizzo di tecniche e materiali. Ecco il perché dei due anni di studio. Occorreva capire quali materiali fossero stati utilizzati da Raffaello e quali dai restauri effettuati nel 500 a seguito del crollo di cui ho parlato prima. Poi analizzare anche quali fossero i restauri successivi e in che condizioni chimico fisiche si trovassero questi vari materiali. Infine non si è trattato solo di decidere che cosa rimuovere o che cosa lasciare, ma anche di riuscire a capire a quale risultato una scelta o l’altra avrebbe portato.

Perché certo non volevamo peggiorare l’immagine mettendo in evidenza i danni e tutti gli annosi problemi dell’opera e abbiamo cercato quindi di mantenere una gradevole fruizione estetica dell’insieme, senza disturbi. Ma nello stesso tempo abbiamo lavorato recuperando il più possibile della pittura di Raffaello.

Questa necessità di dare conto a problemi diversi è stata sicuramente la parte più complessa del lavoro. L’intera pulitura è stata eseguita tutta al microscopio con continue indagini, analisi, misure scientifiche, eccetera. Tutto questo proprio per essere sicuri millimetro per millimetro di quello che si stava facendo.

Il suo lavoro ha avuto un enorme successo, riconosciuto dai media e dalla critica. Più in generale qual è la situazione delle scuole di restauro in Italia?

Di per sé l’Italia avrebbe tutti gli elementi per essere fra i paesi leader in questo campo, per la sua tradizione, per le competenze che ci sono. Il mio istituto di Firenze, l’Opificio delle Pietre Dure, così come l’Isituto Centrale di Roma, sono realtà stimate a livello internazionale e la competenza dei restauratori italiani non è seconda a quella di nessun altro Paese.

Com’è immaginabile gli ostacoli nascono poi dai soliti problemi generali: la difficoltà di reperire finanziamenti e la riduzione progressiva dei contributi statali che sta falcidiando il nostro settore causando davvero danni tremendi. Gli ultimi tagli sono stati terrificanti.

Noi dell’O.P.D. abbiamo alcuni dei restauratori più famosi, riceviamo consulenze da tutto il mondo. Uno di questi andrà in pensione fra poco e, con incomprensibile indifferenza da parte del nostro ministero, non c’è stato verso di assumere qualcuno da mettergli affianco perché ci fosse una sorta di continuità del suo lavoro e delle sue ricerche. Pensiamo al fatto che il museo Getty di Los Angeles vuole offrire borse di studio per far sì che degli assistenti lo affianchino di modo che il suo patrimonio di conoscenze non vada disperso. Questo fatto ci offre dunque il polso della situazione attuale nel nostro Paese.