Saint-Exupéry faceva il corriere postale aereo fra la Francia e l’Africa nord-occidentale (che negli anni 30 del XX secolo era territorio francese). Questo genere di lavoro era rischiosissimo: infatti allora l’aeronautica era ancora agli albori, ma Antoine aveva maturato un altissimo ideale che lo esaltava anche e soprattutto attraverso il suo lavoro di pilota. Sta di fatto che egli volò tutta la vita, rischiandola ogni volta con un coraggio da eroe, ma soprattutto sfogando in tal modo il suo desiderio profondo di non vivere una vita ordinaria, scontata, da impiegato, per buttarsi a corpo morto nei cieli. Del suo lavoro di pilota usava dire: «Leggerò negli astri il mio cammino».



Il piccolo Antoine visse durante la sua infanzia in un castello. Insieme ai suoi fratelli egli era convinto che da qualche parte in quelle mura fosse nascosto un tesoro: questo rendeva il castello affascinante come un mistero. La percezione della realtà come mistero si formò in lui proprio nella sua casa: ciò che rendeva incantato il castello era il fatto che in esso si nascondesse un tesoro. Cosi Antoine crebbe con questa percezione del reale: ciò che rende affascinante la realtà, ciò che la rende incantata, è il mistero che essa racchiude e di cui è segno. «Ciò che fa bello il deserto non si vede»: è la capacità di penetrare le cose, di guardare dentro di esse. Il suo irrefrenabile slancio verso il mistero gli farà descrivere nel Piccolo Principe il mistero stesso come un bambino che cerca irresistibilmente l’amicizia in tutti gli incontri; questa passione al mistero si traduce in una serietà straordinaria rispetto ai fatti della sua vita: partecipa alla II guerra mondiale in difesa del suo popolo e morirà proprio in nome dello spirito di appartenenza ad esso. Venne abbattuto nel 1944 (a 44 anni) dai caccia tedeschi, il suo corpo non fu più ritrovato.



Il primo capitolo del Piccolo Principe è come un richiamo generale dell’autore alla modalità di lettura della sua opera. «Se non sapete guardare al di là delle apparenze», sembra dire Saint-Exupéry, «parlerò con voi solo di bridge, di golf, di politica e di cravatte», cioè di cose di una banalità quotidiana senza rimedio, che è come la palude generale in cui gli uomini (gli “adulti”) impantanano la loro vita.

Si profila così un livello del testo che richiede una visione più acuta per essere colto.

Ne è esempio il boa dal di fuori e dal di dentro. Quando l’autore realizza il disegno n. 1, provoca i grandi per vedere se possiedono una sguardo vero, capace di penetrare dentro la realtà, capace di capire che il primo disegno non è un cappello, ma un boa che ha mangiato un elefantino. Uno sguardo vero è il primo contenuto di un rapporto amicale: si conosce davvero solo ciò che si ama. Il Piccolo Principe è una finta fiaba in quanto radi sono gli elementi fantastici, mentre abbondano quelli simbolici. Ma se non è una fiaba, chi è il Piccolo Principe? È un incontro che l’autore ha fatto? È un’esperienza vissuta da bambino (“piccolo”) e che gli ha insegnato il mistero più importante della vita? È la scoperta che solo l’amore fino al dono della vita stessa realizza la nostra esistenza, ci fa “principi”, cioè veri possessori della nostra vita? È la presenza di un mistero buono che viene intuito nella sua profondità solo dalla semplicità dei bambini? È il prendere forma del desiderio di amicizia presente in ogni uomo? È la verità della vita che noi sperimentiamo ogni volta che viviamo un’autentica amicizia? Una cosa è certa: il Piccolo Principe non è un’invenzione letteraria, ma qualcosa che Saint-Exupéry ha profondamente vissuto.