Sembra che oggi, per gran parte delle persone, l’ipotesi più sensata di fronte alla sfida della propria esistenza sia quella di arrendersi al nulla. Questo atteggiamento è, per lo più, chiamato “nichilismo”. Eppure, un rapporto con se stessi e con la realtà diverso e più umano non solo è possibile. Ma è corretto dal punto di vista della ragione. Il professor Giuseppe Riconda, già ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Torino e discepolo di Augusto del Noce, spiega a ilsussidiario.net come e perché.



Professor Riconda, a proposito di nichilismo, anzitutto, ci chiarisca il quadro della situazione.

 

Il nichilismo come pensiero debole, almeno fino alla caduta del Muro, sembrava l’atteggiamento vincente. Si pensava che la storia dovesse procedere verso un indebolimento dell’essere, nella convinzione che questo contenesse in sé una forma di violenza. E che, dalla sua diminuzione, ogni genere di contrapposizione sarebbe venuta meno. Il che avrebbe comportato la diffusione della pace globale e la soluzione a tutti i mali del mondo. La previsione si è rivelata sbagliata.



Un pensiero difficile da sostenere sul piano teoretico, ma vivo ed affermato su quello esistenziale, fuori degli ambiti accademici. Come mai?

 

Si tratta di un processo che riguarda tutta la storia dell’Occidente. Caratterizzato a lungo dall’idea che il progresso avrebbe emancipato l’uomo, consentendogli di travalicare i propri limiti terreni. Non è andata così. Le due grandi idee dell’Ottocento, il progresso e la rivoluzione, sono finite. Il nichilismo rappresenta l’estremo tentativo di salvarne qualcosa.

Cosa rimane?

Resta quello che – secondo Augusto Del Noce – era l’anima del nichilismo ed uno dei princìpi determinanti nella nostra società tecnocratica: lo strumentalismo, la tendenza, cioè, a considerare l’altro come semplice mezzo per la propria affermazione. Si tratta, non a caso, di un pensiero immanentistico e antireligioso, che nega ogni genere di trascendenza e la possibilità di fini validi in se stessi. Si comprende così la diffusione di quello che Del Noce era solito definire “nichilismo gaio”, un pensiero che censura l’esistenza del male e il senso tragico dell’esistenza, rifiutando il concetto di colpa. Il peccato, infatti, racchiude sempre una invocazione religiosa e la sofferenza più profonda introduce ad una speranza di natura ultramondana.



Permangono gli effetti pratici, quindi, ma il nichilismo, in quanto sistema filosofico, è giunto a termine. Questo cosa comporta?

 

La situazione di oggi ha un vantaggio: l’uomo, finalmente, è posto di fronte a se stesso senza filtri ideologici e si interroga al di là dei miti post-razionalistici. Del Noce ebbe una grande intuizione: esiste una modernità ancora da scoprire. Quella che, invece di essersi costituita come critica e rifiuto della tradizione, si è proposta come suo approfondimento. Esistono, in tal senso, due filoni del pensiero moderno: uno va da Cartesio a Nietzsche – quello finora più in voga, ma che si è concluso -, ed un altro, che va da Cartesio a Rosmini. La fine del primo potrebbe permettere di focalizzare l’attenzione sul secondo.

A che gioverebbe il recupero della tradizione?

Per Del Noce la critica al pensiero strumentale – l’anima della società tecnocratica – è possibile unicamente ammettendo l’uomo come fine in sé. Ma l’essere umano può esser considerato degno di rispetto solo riconoscendone l’incommensurabilità ad ogni valore. Perché ciò avvenga, è necessario accettare che in esso alberghi un elemento divino. Altrimenti non rimane altro rapporto che quello strumentale. Secondo Del Noce il sorpasso della società tecnocratica è ipotizzabile solo in questa prospettiva. E a ben vedere, si tratta proprio della visione tradizionale dell’uomo. Secondo la quale è fatto a immagine e somiglianza di Dio.

Sì. Ma chi la pensa più così, ormai?

La Chiesa, ovviamente. Del Noce, rifiutando ogni possibile interpretazione positiva del nichilismo e facendone emergere la dimensione più degradata, apriva, al contempo, ad una speranza, che era legata al suo senso del Cristianesimo. Per recuperare la dignità dell’uomo e l’idea della sua somiglianza con Dio, infatti – affermava Del Noce – bisogna recuperare un’interpretazione delle idee in termini non di riuscita pratica, ma della loro verità intrinseca. Pena, il cadere nel drammatismo. È il compito che, da sempre, la Chiesa svolge. In particolare nell’elaborazione dottrinale; che include non solo enunciati su Dio, ma anche sull’uomo. Non potrebbe custodire la parola divina, infatti, se non custodisse colui al quale la parola divina è rivolta. E la custodia dell’umano, implica, anzitutto, affermarne la verità.

 

(intervista raccolta da Paolo Nessi)