Chissà quanti di coloro che si accapigliano intorno alle problematiche della scuola a forza di slogan, invettive, artifici dialettici, hanno visto i film di Antonioni sull’incomunicabilità. Io me li ricordo bene, e mi manca parecchio lo sguardo perso di Monica Vitti, perso e triste per la mancanza di comunicazione. Gli sguardi che vedo oggi paiono invece persi per un eccesso di comunicazione, però sbagliata: sono quelli di persone eccitate, agitate, spesso spinte ad agire da motivazioni per nulla chiare. Mentre la pubblicità di una grande azienda telefonica ci ricorda che abbiamo in mano il potere di comunicare e ci invita a farlo, paradossalmente sembra che nessuno riesca più a comunicare nulla. Nulla di serio, perlomeno, o che valga la pena di essere realmente discusso.
Se si analizza la nascita della protesta studentesca strettamente in base al circolo vizioso mediatico che si è creato intorno a problemi virtuali, ci accorgiamo di essere arrivati ad un punto estremamente pericoloso: sembra quasi che i mass media non siano condotti da nessuna mano, né sapiente, né ideale, né ideologica, ma siano semplicemente mossi da impulsi automatici. Come se la loro principale ragion d’essere fosse la ricerca dell’audience. Sparuti gruppetti di studenti inscenano una protesta rumorosa? Ecco pronto un obiettivo che inquadrando la scena dal basso e da vicino farà sembrare enorme ciò che è piccolissimo: ma credo che questo obiettivo sia stato utilizzato in tal guisa non sempre per motivi ideologici, bensì per aiutare la notizia a fare più notizia, a ottenere più attenzione. La dimostrazione è che la stessa pratica è stata seguita da telegiornali di opposto orientamento politico. Dopo giorni e giorni di una simile escalation nella ricerca dell’immagine più provocatoria, la protesta è inevitabilmente montata all’inverosimile. E la strumentalizzazione politica ci ha messo il resto. Nel frattempo sono stati invece accusati di atteggiamento ideologico i giornalisti capaci di dimostrare che quasi nessuno sapeva esattamente per cosa era sceso in piazza.
Ma è davvero possibile che la situazione sia scappata di mano per questo banale meccanismo? Probabilmente la verità risiede nel fatto che questo riflesso condizionato correlato alla ricerca dell’audience ha fatto lievitare una pasta i cui ingredienti erano costituiti da una larga dose di ignoranza, malafede o di strumentalizzazione politica, ma anche da una serie di errori di comunicazione – nei modi e nei contenuti – da chi doveva far comprendere ai cittadini i provvedimenti sulla scuola. Ma oramai poco importa che siano scesi in piazza gli studenti universitari quando il motivo del contendere era la scuola elementare. Oramai l’agenda è scappata di mano, ed è stata scritta diversamente da come probabilmente al Governo ci si augurava.
Personalità non certo di sinistra come Zecchi e Alberoni invitano a riflettere sul fatto che, visto che l’argomento è giunto comunque alla ribalta, nell’università non si può semplicemente tagliare ovunque, ma occorre risparmiare dove si spreca e investire dove si merita. Parlando a lungo e in profondità con docenti e studenti seri di qualsiasi cultura politica, si scopre che tutti indistintamente ammettono le inefficienze del sistema scolastico italiano. Un sistema assai ben descritto da un articolo apparso il 30 ottobre su La Stampa, nel quale Luca Ricolfi denunciava l’esistenza di due patti scellerati, uno tra genitori e figli e uno tra docenti e allievi, tutti tacitamente d’accordo nell’accettare una scuola certamente egualitaria, ma nel senso di non far fare fatica a nessuno: docenti, allievi e genitori, con buona pace per il pessimo livello di sapere distribuito. Così appare chiaro che chi ora protesta, con tutta probabilità si sarebbe trovato assai spiazzato dalla comunicazione di tagli alle aree di inefficienza in cambio di investimenti nelle aree efficienti. Da trasmissioni dove in genere soprattutto si litiga, sono emersi brandelli di verità tutt’altro che insignificanti sui ricercatori che meriterebbero un trattamento migliore e sui corsi inutili che andrebbero eliminati. Con notevole coraggio civile Stefano Zecchi ha inviato a Il Giornale in busta chiusa i nomi dei vincitori dei prossimi concorsi universitari che sarebbero noti da tempo. Autorevoli clinici universitari romani si dicono disposti a fare altrettanto per i concorsi della capitale. Finalmente qualcosa si muove, e si comincia a ragionare su una delle principali cause del disastro, che però – non va dimenticato – porta alla luce un patto altrettanto scellerato tra baroni e politica. E anche al Governo ci si è resi conto che su questi temi occorre muoversi con maggiore cautela.
Ma oramai non è più un fatto di mera comunicazione: se la crisi convince tutti della necessità di dover tagliare gli sprechi, nessuno potrà opporsi se solo gli sprechi verranno aggrediti, e non si taglierà egualmente dappertutto, mettendo in difficoltà quel poco di eccellenza che ancora resiste, mantenendo in piedi un sistema incapace di produrre sapere di qualità, come dimostrano le classifiche internazionali. E c’è anche una grande opportunità per i mass media di farci riflettere sulla verità, senza pensare sempre e solo all’audience: Vaclav Havel diceva che non si può andare impunemente per troppo tempo contro la verità. Eppure – ahimè – in queste ore vedo ancora spuntare il solito obiettivo, impiegato sempre con la stessa finalità. Posizionato in basso, da vicino, per far sembrare affollata la sala di un congresso di un partitello dove c’erano pochissimi intervenuti, o per far sembrare piena una piazza che piena non era affatto. Uno dei miei maestri di comunicazione ci potrebbe tornare a fare una delle sue famose lezioni sulla “non obbiettività” dell’obiettivo. Ma fino a quando ci si può illudere di poter ancora lottare impunemente contro la verità?