Arriva al momento giusto questo straordinario revival di Giorgio Morandi, un revival slegato da anniversari o da altre incombenze celebrative. Dopo gli anni delle grandi abbuffate di arte miliardaria e ipermediatica, era logico che nella tormenta della grande crisi diventasse lui l’artista di riferimento; l’artista silenzioso, appartato, sobrio. Colui che si schermiva quando i collezionisti gli facevano arrivare assegni milionari. Ad esempio, allorché Francesco Paolo Ingrao, collezionista sardo, ansioso di avere una sua opera, gli mandò un assegno di 100mila lire, ebbe questa risposta da un Morandi imbarazzato: «Sarà necessario che ci intendiamo perché non mi è possibile accettare tanto denaro per un dipinto».



Morandi trionfa a New York, dove il Metropolitan ha organizzato la più vasta retrospettiva che gli sai mai stata dedicata (bellissimo il titolo del vasto servizio che il New York Times ha allestito per l’occasione: “All that life contains, contained”): la mostra arriverà a Bologna, città natale dell’artista a gennaio 2009. Ma intanto gli italiani possono godersi una rassegna più ridotta ma di straordinaria qualità alle Scuderie di Villa Panza di Biumo, a Varese. Qui Anna Bernardini e Flavio Fergonzi hanno radunato 40 capolavori che hanno tutti la caratteristica di provenire da collezionisti storici del grande pittore bolognese (sino all’11 gennaio, catalogo Skira).



È una sede non casuale quella varesina. Infatti nella villa sono esposti alcuni dei grandi artisti americani che Giuseppe Panza di Biumo ha raccolto in 40 anni di grande passione collezionistica. È un percorso di rara suggestione, perché in una villa arredata con il gusto di un elegante e raffinata dimora borghese, alle pareti si trovano quadri che sembrano venire da un altro mondo e parlare un’altra lingua. Sono opere espressione del più radicale minimalismo americano, quel filone che scendendo da Rothko (di cui Panza è stato uno dei primi collezionisti) hanno via via spogliato l’espressione artistica di ogni forma, in una sorta di ascesi e di “depurazione” da ogni soggettivismo. Ebbene, gran parte di questi artisti hanno sempre riconosciuto in Morandi un precursore, tant’è vero che uno dei più noti del gruppo, Lawrence Carroll, in apertura della sua retrospettiva al museo Correr di Venezia, lo scorso anno aveva voluto mettere un quadro del grande pittore bolognese.



A Varese quindi si scopre un Morandi non solo grande esponente del nostro recente passato, ma come un artista ancora pienamente proiettato sul nostro tempo. Ed è una sorpresa ritrovarlo in questa dimensione, visto il pudore, l’idiosincrasia per ogni forma di teatralità che segna la sua opera, vista la riservatezza assoluta della sua biografia. Ma l’appiglio che Morandi offre alla sensibilità e alle domande del nostro tempo è molto più sostanzioso, e lo si coglie bene nell’ottava sezione della mostra varesina, dove sono raccolte alcune nature morte degli anni tardi, costituite dai soliti religiosi raggruppamenti di bottiglie. Sono immagini che nella loro essenzialità vibrano di mistero; che nella loro pace in realtà spasimano, quasi ardono come in un’attesa “fra quattro mura stupefatte di spazio”, per usare un celebre verso di Clemente Rebora. Parafrasando quel che un altro poeta Rilke aveva scritto delle mele di Cézanne, si potrebbe benissimo dire che queste bottiglie siano “i santi” di Morandi: figure quasi astratte, purificate da ogni retorica, schegge di una quotidianità che attende, a mani nude, lo svelarsi del destino. Per questo le “immagini tese” di Morandi sono ancora così presenti a noi.