Nikita Struve conosce molto bene Solženicyn. Gli è stato fraterno amico per trent’anni, ha pubblicato presso la sua casa editrice parigina YMCA Press Arcipelago GULag, ha tenuto una orazione ai funerali dello scrittore. Ora è in partenza per Mosca, dove parteciperà al grande convegno di studi che era stato pensato per celebrare i novant’anni di Solženicyn. Prima ha trovato il tempo di tenere una affollata conferenza agli studenti dell’Università Cattolica di Milano, dove è anche allestita la mostra che già molti hanno visto allo scorso Meeting di Rimini. Professor Struve, chi era veramente Aleksandr Solženicyn?



È indubbio che Solženicyn sia stato un grande del Ventesimo secolo. Eppure non è facile spiegare questa sua grandezza umana e letteraria. Non si riescono a trovare le parole per descrivere la sua opera, che è quasi un unicum nel panorama letterario mondiale. Baudelaire ha scritto che gli uomini grandi sono solo il poeta, il prete e il soldato. E da piccolo Solženicyn diceva di sé che avrebbe voluto diventare, in ordine, un condottiero, un prete, uno scrittore. Poi il destino ha scelto per lui la strada dello scrittore, ma io credo che in realtà egli abbia realizzato tutte e tre queste sue «vocazioni» infantili.



Proviamo ad analizzare queste vocazioni.

Partiamo da quella più evidente. Solženicyn è stato un grande, un grandissimo scrittore. E, come ho accennato prima, per lui è stata veramente una vocazione. Vi si è dedicato a partire dai quarant’anni, dopo aver fatto la terribile esperienza della guerra, del lager, del cancro. Avendo ritrovato al fede, ha compreso che la sua vita aveva un compito: quello di conservare, attraverso la scrittura, la memoria di ciò che aveva visto. Pensi che già a 18 anni immaginava di scrivere una grande opera epica sulla rivoluzione d’ottobre. Lo fece decenni più tardi, dopo tante vicissitudini personali, scrivendo la gigantesca Ruota rossa. Solženicyn era così convinto della sua missione di scrittore che in lager, dove non era assolutamente possibile scrivere alcunché, si è dedicato alla poesia: il ritmo dei versi e la rima gli hanno consentito di ricordare fino alla liberazione quello che andava componendo nella sua mente. Appena ha potuto esprimersi, la sua vena di scrittore è esplosa; la sua opera omnia consta di trenta volumi. Ed è un’opera straordinariamente innovativa in termini linguistici, sintattici, estetici.



In che senso Solženicyn fu anche un soldato?

Anzitutto in quello ovvio che desiderò partecipare alla guerra in difesa della sua patria e si comportò molto onorevolmente, ricevendo anche parecchie medaglie. Ma quello che voglio sottolineare è la sua tempra di stratega e il suo coraggio. Ce ne voleva molto, di coraggio, per mandare ad una rivista ufficiale un racconto come Una giornata di Ivan Denisovic che parlava, per la prima volta, dei lager sovietici. E ci voleva una grande intelligenza strategica per scrivere un libro come Arcipelago GULag nascondendo le copie del dattiloscritto, distribuendole tra gli amici in modo tale che il KGB non le trovasse. Se noi abbiamo potuto leggerlo è stato per questa sua intelligenza.

Veniamo alla vocazione di sacerdote.

Secondo me Solženicyn l’ha realizzata al suo livello più alto, quello del profeta. Il profeta è anzitutto colui che vede quello di cui altri non si accorgono; e Solženicyn era proprio così: aveva un’intelligenza acutissima e comprendeva la situazione del suo interlocutore prima che questi parlasse. Il profeta, poi, è colui che ha il coraggio di denunciare la menzogna e l’ingiustizia e, per questo, è odiato. In Solženicyn questo aspetto è evidentissimo: basta pensare alle sue forti prese di posizione di fronte a ogni attacco contro la verità (anche in occidente), e alla consapevolezza che per questa libertà si deve pagare di persona. Lui ha pagato, non solo con la persecuzione e l’espulsione dal suo paese. Solženicyn sapeva che la sua profezia avrebbe potuto costargli la vita; e infatti nel 1971 tentarono di ucciderlo avvelenandolo.

Solženicyn, quindi, realizzò le sue aspirazioni di bambino?

Certamente. Ma occorre tenere presente un aspetto per me fondamentale e che documenta ulteriormente la sua genialità. Tutti quelli che l’hanno conosciuto hanno notato la sua straordinaria forza di volontà e il suo coraggio. Ma sotto a tutto questo sta un’altra dinamica, molto più profonda. Voglio parlare di quello che san Paolo, nella lettera ai Filippesi, chiama kenosi, cioè lo svuotamento di Cristo, che da Dio si è fatto uomo e, come uomo, si è annullato fino alla morte. Ecco, Solženicyn è stato un condottiero, un sacerdote e uno scrittore di eccezionale grandezza, perché ha accettato per sé questa strada. Pensi che il primo periodo di lager l’ha trascorso in una condizione privilegiata: si trovava in un campo per scienziati (non dimentichiamo che Solženicyn era un valente matematico) nel quale le condizioni di vita erano molto migliori che negli altri luoghi di reclusione. Bene, Solženicyn, insieme ad altri, ha chiesto di essere trasferito in un lager «normale», quindi molto più duro, proprio per bere fino in fondo il calice della sofferenza. Del resto molti personaggi dei suoi racconti sono grandi proprio perché rinunciano a se stessi per un ideale grande. Pensi a Matriona del celebre racconto che dona tutta se stessa oppure a quel funzionario di partito, Innokentij Volodin che avrebbe potuto diventare ambasciatore in Francia, ed invece fa filtrare all’estero notizie sulla fabbricazione dell’atomica in URSS e per questo viene arrestato. Ma proprio in prigione, cioè al fondo della kenosi, egli ritrova la sua umanità. Ma allora, c’è una parola sintetica che oso utilizzare per descrivere Solženicyn: santità.