Nei manuali di storia si parla frequentemente della rivoluzione del 1917, ma assai poco di quella del 1905. Come mai?
Checché se ne dica, la storia è stata solitamente scritta per i potenti e per i vincitori di turno (come intuì e mostrò mirabilmente Manzoni nei Promessi sposi, che sono anche una profonda e umanissima riflessione sulla storia e sul mestiere di storico). Sui bolscevichi, trionfatori finali del lungo processo rivoluzionario, si è sempre affissato lo sguardo degli apologeti come degli avversari del comunismo, i quali hanno trascurato o ignorati sia gli altri protagonisti sia le vicende a loro avviso lontane dai fatti dell’ottobre 1917. Tuttavia, nell’Unione Sovietica il 1905 fu sempre al centro dell’attenzione, perché interpretata e narrata come preludio («prova generale») del 1917; ma, per corroborare tale visione, i pubblicisti e gli storici sovietici dovettero mettere in scena quasi esclusivamente Lenin e i bolscevichi quali soli o principali protagonisti dell’intera epopea rivoluzionaria.
Nel suo recente volume – 1905 La vera rivoluzione russa (Della Porta 2008) – lei chiama quella del 1917 «rivoluzione bolscevica» e quella del 1905 «rivoluzione russa»; può spiegare la differenza?
Per «rivoluzione bolscevica» in senso stretto bisognerebbe intendere l’azione condotta dal partito di Lenin nel 1917 fino alla conquista e al consolidamento del potere. Ma ciò fu soltanto un episodio della rivoluzione russa del 1917 (fatta da molti altri protagonisti e ricca di tanti altri eventi) e, a maggior ragione, della rivoluzione del 1905, nella quale i bolscevichi non svolsero affatto un ruolo egemonico. Nella rivoluzione del 1905, insieme sociale e politica, ebbero una parte rilevante anche le vivaci e pugnaci forze liberali (alle quali, ancor oggi, molti studi assegnano il posto di Cenerentola della rivoluzione). Nei miei lavori ho cercato di spiegare perché mai furono i bolscevichi a vincere nell’autunno 1917 e perché vennero sconfitti i socialisti rivoluzionari, che pure esprimevano i bisogni e le aspirazioni dell’immensa popolazione rurale. In senso lato, poi, la «rivoluzione bolscevica» fu la lunga e terribile azione svolta dal partito comunista nell’URSS per costruire un nuovo Stato e un nuovo sistema economico-sociale.
Nella introduzione lei dice che Lenin «agì da becchino della rivoluzione»; cosa intende esattamente?
Dei partiti rivoluzionari russi quelli marxisti, e tra essi i bolscevichi, erano i più distanti dalla mentalità e dalle esigenze dei contadini, cioè della stragrande maggioranza della popolazione lavoratrice. Con geniale intuito, nell’autunno 1917 Lenin copiò il programma agrario dei rivali socialrivoluzionari e sancì l’occupazione delle terre. Ma, assieme alla duttilità tattica e all’abilità politica, i bolscevichi avevano una visione settaria e una ferocissima determinazione nell’attuare il loro programma, per molti versi dottrinario ed estraneo alle reali aspirazioni del mondo popolare russo. Fino all’autunno 1917 essi riuscirono a cavalcare con successo la spontanea e crescente protesta plebea. Quando poi, nella primavera 1918, il nuovo regime venne a trovarsi in un vicolo cieco (anche a causa della forsennata politica da esso seguita), Lenin usò il pugno di ferro perseguitando gli altri partiti socialisti (i liberali erano stati messi fuori legge da tempo), opponendosi al «controllo operaio», sottraendo ai contadini i prodotti agricoli. Da allora la guerra tra Stato bolscevico e masse popolari conoscerà alti e bassi, furiosissimi scontri (culminati nelle insurrezioni del 1920-1921) alternantisi a periodi di tregua (gli anni della NEP), fino a concludersi con la crudelissima collettivizzazione e la dura militarizzazione del lavoro all’inizio degli anni ’30.
Dopo la rivoluzione del 1905 un gruppo di intellettuali un tempo marxisti, poi diventati liberali ed infine giunti alla fede ortodossa, scrissero un pamphlet – intitolato Vechi – molto critico su quella rivoluzione ed in particolare sull’intelligencija russa, accusata di nichilismo. Cosa pensa di questa posizione?
Io non penso che la silloge Vechi aiuti a capire davvero i drammatici problemi della storia russa e della rivoluzione russa. È vero che Berdjaev, uno dei principali autori, scrisse acutamente che «l’intelligencija russa fu tale quale la creò la storia russa; nella sua psiche si rispecchiano i peccati della nostra dolorosa storia, del nostro regime e della nostra eterna reazione» e che «il dispotismo insenilito deformò l’anima dell’intelligencija». Ma, definendo «colpevole» l’intellighenzia, egli faceva d’ogni erba un fascio e non rendeva giustizia alle lotte eroiche che molti intellettuali democratici avevano condotto, in condizioni difficilissime, contro l’assolutismo zarista e per l’affrancamento delle masse popolari. Anche Richard Pipes, com’è noto, ritiene l’intellighenzia la principale responsabile degli orrori della rivoluzione. Non bisogna certo sottacere o minimizzare i tratti mostruosi e patologici (in primo luogo, la ferocia terroristica) di alcune formazioni rivoluzionarie (già colti lucidamente da Dostoevskij nel romanzo I demoni). Ma non dobbiamo dimenticare l’umile e tenace opera filantropica, oltre che d’illuminazione politica e civile delle campagne, svolta dal «terzo elemento», cioè dagl’impiegati delle amministrazioni locali: maestri elementari, medici condotti, statistici, agronomi. Furono essi a gettare, per la prima volta, un ponte tra le due Russie (quella colta e occidentalizzata, e quella arcaica e plebea), paurosamente distanti tra loro sin dai tempi delle riforme – esteriori e imposte dall’alto – di Pietro il Grande.