Celebrare l’anniversario della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, promulgata il 10 dicembre 1948, non può essere un atto solo formale ma chiede una rivisitazione dei suoi contenuti e soprattutto una ripresa delle sue ragioni. Il mondo è molto cambiato negli ultimi sessant’anni, e mentre si deve constatare che il ruolo delle Nazioni Unite si è molto ridimensionato, occorre oggi dare nuovo spessore ed autorevolezza soprattutto alla difesa internazionale dei Diritti umani che oggi sono sempre più minacciati e violati. Pensiamo all’elementare diritto alla vita, non solo negato ai milioni di persone che soffrono la fame e ne muoiono nell’indifferenza dei Paesi sviluppati, ma anche alla pratica dell’aborto e dell’eutanasia che vengono invocati come espressione di un diritto all’autodeterminazione, che permetterebbe (in nome della libertà del singolo) di decidere sulla vita nascente o terminale.  



Ma altri diritti sono violati, come quello alla libertà religiosa, conculcato di recente soprattutto dalle persecuzioni contro i cristiani, proprio mentre l’Occidente cerca di attrezzarsi a dialogare con mondi diversi come quello dell’Islam: invece di riconoscere che il senso religioso deve potersi esprimere secondo le diverse modulazioni delle religioni rivelate, si lascia da una parte prevalere un laicismo indifferente o ateo, mentre dall’altra non si interviene con atti di ingerenza umanitaria laddove siano annientate espressioni pacifiche di un specifica appartenenza religiosa.



Ma sono solo esempi per dire che la Dichiarazione, in sé ricca di valori, è oggi ridotta ad un monumento del passato inincidente sull’oggi. Ma c’è anche da notare l’equivocità di concetti fondamentali come quello di eguaglianza, oggi utilizzato per fomentare atteggiamenti di omofobia, cioè di paura che l’affermazione della differenza si trasformi in odio o addirittura in razzismo. Notare le differenze, cioè l’obiettiva alterità iscritta nella natura, diventa così colpa di lesa maestà contro l’uguaglianza, come (ma è solo un esempio) quando si parla dei diritti degli omosessuali: negare l’eguaglianza dei sessi (non evidentemente negare la pari dignità delle persone diversamente sessuate) sembra essere un atto di intolleranza, mentre è evidente che la differenza sessuale appartiene alla natura e che l’unione eterosessuale configura un modello di famiglia non paragonabile all’amicizia omosessuale. E qui emerge la tendenza a moltiplicare l’elenco dei diritti all’infinito per cui se la famiglia ha diritto alla tutela come società naturale si vuole estendere tale diritto a qualunque altra forma di convivenza. La debolezza di affermazioni di tal genere rivela evidentemente la mancanza di chiarezza su cosa siano i “diritti naturali”, causata dalla perdita di quella radice che li fonda nell’uomo stesso prima che nelle legislazioni dei singoli stati. L’idea che esista una natura umana non è un’invenzione del giusnaturalismo moderno, ma rimanda alla stessa verità sull’uomo che da sempre la filosofia cerca. Ed oggi il dibattito sui Diritti umani non può prescindere dalla ricerca di una loro fondazione metaempirica (cioè che vada al di là della pura descrizione o elencazione): non si tratta, infatti, di aggiornare un elenco ma di cogliere le ragioni per cui un diritto è tale. E ciò implica la ripresa di una ragione “aperta” alla ricerca dell’essenza stessa dell’uomo, osando sfidare le riduzioni della filosofia a puro sapere descrittivo.

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