Nel marzo del 1937, Pio XI, papa Ratti, promulgava l’enciclica Mit brennender Sorge, documento di condanna del nazismo diffuso a fine mese dalla stampa tedesca. Letteralmente l’espressione significa “con bruciante preoccupazione”. Una preoccupazione che sembra non essersi del tutto “spenta”, per lo meno da parte di chi, come Matteo Luigi Napolitano o Giovanni Sale, conosce bene il ciclo dei corsi e ricorsi storici. Spesso infatti proprio coloro che intendono purificare la propria posizione sociale da imbarazzanti contaminazioni con il passato rischiano, forse per troppa veemenza, di perdere l’equilibrio e ricadere nella gabbia ideologica dalla quale vogliono evadere. Un segno di ciò è la propensione ad alterare la memoria collettiva, tentazione che le ideologie totalitarie del secolo scorso ben conoscono.
«L’ideologia fascista da sola non spiega l’infamia delle leggi razziali. C’è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata nel suo insieme alla legislazione antiebraica e perché salvo luminose eccezioni non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno da parte della Chiesa cattolica». Con queste parole il presidente della Camera Gianfranco Fini si è espresso a Montecitorio in occasione del 70mo anniversario della promulgazione delle leggi razziali.
Professor Napolitano, come giudica le parole pronunciate dal presidente della Camera Gianfranco Fini in merito al presunto “adeguamento” della Chiesa di fronte alle leggi razziali?
Chiaramente non posso giudicarle da un punto di vista politico, ma sul versante storico le parole di Gianfranco Fini si possono definire per lo meno sorprendenti. Questo ovviamente non per la eco che è stata loro data e che è dovuta al fatto che a parlare è il presidente della Camera, bensì per un’accusa a un soggetto, la Chiesa Cattolica, che per gli ebrei ha fatto moltissimo. Questo lo dimostrano anche i numerosi riconoscimenti della comunità ebraica al Vaticano. In un contesto storiografico simili asserzioni debbono essere oggetto di una contestazione, garbata, ma sostanziale.
A proposito di contestazione il gesuita e storico Giovanni Sale ha ribadito la ferma opposizione di Pio XI il quale condannò apertamente l’antisemitismo
Ha perfettamente ragione. Conosco Giovanni Sale molto tempo e devo dire che le sue considerazioni, al di là dei toni polemici espressi in alcuni passaggi, sono assolutamente equilibrate e obiettive. Tra l’altro, senza nulla togliere al suo valore di storico, sono obiezioni molto solide anche perché sono particolarmente facili da documentare, vista la mole di materiale a disposizione.
Che cosa intende il presidente Fini quando fa riferimento alla mancanza di una “resistenza”?
Se si tratta di aprire la finestra del loggiato di Piazza San Pietro e dichiarare al mondo l’ingiustizia delle leggi razziali non si mette in atto il senso in cui la Santa Sede in quel periodo, ma generalmente in tutti i tempi, intende. Non occorrevano allora dichiarazioni tanto plateali quanto inutili. Piuttosto era necessario rifarsi a quell’atteggiamento che anche la Bibbia definisce “il seme della resistenza”. Se noi però consideriamo le leggi razziali nell’Europa di allora e le caliamo nel contesto dell’azione della Sede Apostolica, prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, possiamo facilmente notare un’attenzione costante del Vaticano a difesa dell’ebraismo e del popolo ebraico minacciato dalle varie leggi speciali di diversi Paesi. Non bisogna fermarsi soltanto alle leggi antisemite e razziali tedesche e italiane, ma anche a quelle speciali del governo francese di Vichy, collaborazionista, quelle emanate in Croazia, in Slovacchia o in Ungheria, promulgate dunque da Stati collaborazionisti e filofascisti. Per tutti questi casi la Chiesa Cattolica è sempre intervenuta puntualmente, in alcuni frangenti chiosando addirittura articolo per articolo. Ma non si trattò solamente di questo. Ci sono numerosissimi episodi di una vera e propria difesa attiva contro il sistema razziale.
Le constatazioni espresse dal presidente della Camera coinvolgono anche l’indifferenza popolare verso le leggi razziali. Eppure sembra una condanna che solitamente si ascrive in misura più frequente e immediata nei confronti del popolo tedesco, per quale motivo?
Il popolo italiano, grazie agli studi e alla documentazione esistente, gode di una visione completa e articolata del fascismo. Una visione che i tedeschi non possono a propria volta avere nei confronti del nazismo. Questo perché Mussolini e il regime mussoliniano hanno prodotto una vastissima quantità di documenti. Di Mussolini si sa praticamente quasi tutto, lo dobbiamo particolarmente agli studi di Renzo De Felice e alla sua monografia, lo dobbiamo alle ricerche dei suoi allievi e lo dobbiamo anche allo stesso duce che, essendo un grafomane, un ex giornalista, uno che amava scrivere, ha fornito allo storico una miniera inesauribile di materiali.
Ciò ha consentito agli italiani, come felicemente ha detto Sergio Romano, di rimuovere il “convitato di pietra” del fascismo dandone un giudizio pressoché completo e favorendone la storicizzazione. I tedeschi invece si chiedono ancora oggi con angoscia per quale motivo gli emuli della cultura germanica di Fichte e di Hegel, lo stesso Heidegger, abbiano potuto darsi in pasto per poco più di un decennio a uno sconosciuto caporale austriaco. Questa inspiegabilità crea un disagio collettivo dal punto di vista della memoria storica. Perciò è molto più viva nel popolo tedesco la condanna all’indifferenza diffusa in quegli anni nei confronti delle leggi razziali e dell’Olocausto.
Quale fu l’atteggiamento degli italiani a fronte della promulgazione delle leggi?
Negli italiani non ci fu mai, salvo rarissime eccezioni, una grande convinzione rispetto alla svolta biologica data dal regime con le leggi razziali. Leggi che, giustamente, il presidente Fini reputa infami anche per sdoganarsi da una cultura di riferimento, interna al suo partito, che per molto tempo ha difeso le decisioni di Mussolini e che poi, proprio grazie alla svolta di Fiuggi, è riuscita a emanciparsi da questo retaggio. In Italia si segnalarono molti più casi di solidarietà illegale agli ebrei rispetto a quello che accadde in Germania. Quando si trattò di consegnare ai nazisti gli ebrei che abitavano nei territori controllati dagli italiani l’esercito fece di tutto per non realizzare queste direttive. Cominciarono con l’allontanare le famiglie ebree dai confini per far sì che potessero cadere meno facilmente in mani tedesche. Ripetutamente i tedeschi fecero appello al Governo italiano affinché lo Stato Maggiore desse ordini precisi in merito alla consegna degli ebrei e, sistematicamente, lo Stato Maggiore fece il doppio gioco dichiarando ufficialmente una piena collaborazione, ma, nei fatti, nicchiando il più possibile.
Non si tratta di leggende da “italiani brava gente”, ma di storia documentata. L’atteggiamento del nostro esercito nel ’42-‘43 fu tendenzialmente lo stesso in tutti i territori occupati dall’Italia. Gli ebrei di Grecia, gli ebre francesi e quelli croati furono in gran parte tutelati. In poche parole, mentre per l’ideologia nazista l’antisemitismo era una conseguenza quasi logica, gran parte degli italiani ritenne che si trattasse di un “innesto” innaturale nella propria cultura.
Condannare il proprio passato distanziandosene e accusando una “fetta” di popolazione che “ha sbagliato” sembra una prassi diffusa sia a destra sia a sinistra. Spesso simili prese di posizione portano a considerazioni sostanzialmente ingiuste. Esiste un modo di chiudere con il passato senza ricadere nell’ideologia?
Sì, occorre innanzitutto non fare della storia l’ancella del dibattito e della diatriba politica. In secondo luogo bisogna sempre far parlare i documenti senza aggiungere altro. Ho a questo proposito alcuni esempi: L’Osservatore Romano, il 2 luglio del 1938, riporta un discorso del papa che dice: «cattolico significa universale e ogni spirito di separatismo e di esasperato nazionalismo è detestabile». Questa notizia venne riportata dall’ambasciatore americano in Italia in un dispaccio al segretario di stato americano il 24 luglio dello stesso anno. Il 20 ottobre Cosmelli, ai tempi incaricato d’affari a Washington, scrive a Galeazzo Ciano: «La parola Papale, il razzismo sempre più imperante determinano un atteggiamento di forte dissenso dei cattolici americani nei confronti di Italia, Germania e Russia». Il 5 novembre il segretario di Stato americano Welles comunica all’ambasciatore italiano a Washington: «il Vaticano ha preso pubblica posizione contro le discriminazioni razziali». Il 14 novembre la Segreteria di stato riporta una «nota di protesta del Papa sull’approvazione del decreto legge per la difesa della razza inviata a S. E. il signor Ambasciatore d’Italia». In quegli stessi giorni il cardinal Pacelli, futuro Pio XII annotava nei suoi appunti personali: «il Santo Padre attende la risposta del Re. Mussolini pensi bene a quello che fa. È un vulnus al Concordato. Il Papa non si presterà in alcun modo». Questi sono solo pochi esempi, e si potrebbe continuare a lungo.
Ora, è chiaro che le parole di un politico hanno per loro natura un peso storiografico. Di fronte alla vasta mole di documenti di cui disponiamo sarebbe per lo meno auspicabile, se non altro per amor di verità, che a dichiarazioni di questo tipo si possa contrapporre il giudizio della storia autentica.