Nelle edizioni Interlinea di Novara è da poco uscita, a cura di Valerio Rossi, una raccolta delle poesie, delle prose liriche e delle lettere che Clemente Rebora scrisse tra il 1914 e il 1917, gli anni della prima guerra mondiale. Il titolo, Tra melma e sangue, è un verso della famosa lirica Viatico, una delle più intense di questa antologia.
Preceduto da un’introduzione di Giovanni Tesio, il libro è diviso in due sezioni.
La prima raccoglie poesie e prose liriche che si riferiscono al clima di imminenza della guerra e poi all’esperienza di partecipazione diretta al conflitto. Ogni testo è preceduto da un’introduzione critica, con l’indicazione delle pubblicazioni precedenti, ed è seguito da un ricco apparato di note.
La seconda sezione raccoglie le lettere scritte da Rebora, negli stessi anni, a familiari e amici ed è conclusa, intelligentemente, dalla lettera a Giovanni Capristo del 1925.
Segue un’appendice che riporta alcuni documenti relativi al Rebora di quel periodo.
Il lettore può così seguire il cammino umano e poetico che portò il poeta da una sofferta e drammatica partecipazione alla guerra (culminata nell’episodio che segnò forse per sempre la sua salute, lo scoppio di un obice 305 accanto alla sua trincea, pochi giorni prima del Natale 1915), alla maturazione profonda della sua conversione, che, come è noto, sfociò nella decisione di diventare sacerdote.
Le composizioni confermano il carattere espressionistico della ricerca linguistica reboriana: versi brevi, preferenza per suoni aspri, frequenti allitterazioni.
I primi scritti comunicano un clima di tensione e di presagio: si veda per esempio la prima poesia in antologia, Notte a bandoliera, del marzo 1914:
Ossessïone d’attesa,
truce allegria sospesa,
fischi strisciati in domanda,…
Poi prevale l’orrore della guerra, che nelle lettere viene definita tremendo festino di Moloc, stanza dell’ammazzatoio di Barbableu (p. 180), dove non è che mari di fango e bora freddissima e lui stesso si sente fatto aguzzino carnefice. Il male della guerra è qualcosa di cieco e impersonale, che travolge tutto e tutti in un nonsenso:
Si va per la strada profonda spastata, ingoiata. Confusion d’ordine; file perdute: barcollii di volumi spossati ricurvi, spossati e cacciati nel buio dal flutto dei morti che non è libero ancora, che non sarà libero mai, ma non sa, non sapeva, e marcia e si posa e s’apposta, perché così vuole qualcuno o qualcosa, perché si deve, si fa, non si sa – per contro un nemico, il nemico ch’è fuori, il nemico che è noi. (Senza fanfara).
Eppure rimane insopprimibile la sua esigenza illuminatrice… in questo momento in cui tutti intuiscono cosa significhi il mondo (p. 173) e, ormai fuori dal conflitto, in una gita in montagna, si fa viva la sua così tipica disposizione di attesa:
Tutto ascendeva,
congiunto, discosto,
i monti e la sera,
presenza del cuore nascosto,
lontananza del fior sullo stelo.
Al varco dell’ombra e del cielo
Scoprivo lo spazio alle cime,
che hanno confine
ov’è l’inizio più vero.
(Ca’ delle sorgenti)
Molto opportunamente la seconda sezione si conclude con la lettera a Giovanni Capristo, in cui Rebora, vincendo il suo consueto riserbo, traccia la sua autobiografia ideale di quegli anni. Il calvario di Podgora, egli scrive scegliendo certo accuratamente le parole, fu per me un soccombere sotto la croce. (…) Non avendo certezza religiosa della vita, (…) mi sentii scaraventato d’improvviso nella prova della nostra anima unanime (…). E da allora cominciò la mia conversione (…). Cerco di diventare italiano per essere umano, ed essere umano per diventare divino. E questo è il travaglio segreto di tutti noi, operai della medesima opera, da Gesù in poi. (p. 204 e ss.).