Sono cresciuto sotto una madre per la quale la Messa della Natività contava più di ogni altra cosa nella vita. Con una sola eccezione, naturalmente, quella della Pasqua di Resurrezione. Nella mia vita, più mi sono inoltrato sul cammino dell’esperienza, meglio ho capito come e quanto fosse radicalmente sbagliata, la ricercata e deliberata estraneità che per posa era rispetto a mia madre e alla sua educazione, in realtà era – sia pur inconfessatamente – all’evento che cambia la storia.



Ciò che mi ha fatto definitivamente mutare non idea, ma consapevolezza di un’idea e di un atteggiamento che in lunghi anni era sostanzialmente cambiato, è ciò che da anni contraddistingue i “miei” Natali. Fuori dalla redazione dei giornali in cui lavoro, dal rincorrersi delle agenzie e delle notizie, dalle frenetiche letture di papers e serie di dati per comprendere meglio e cercare di spiegare agli altri quel che avviene in Italia e nel mondo, oggi nel pieno di una crisi finanziaria ed economica di quelle che si vedono una volta nella vita. Sono stati i malati e la sofferenza, a farmi capire ciò che mia madre aveva insegnato con l’esempio al recalcitrante figlio non laico, ma laicista e anticlericale. Negli anni, non solo la mia esperienza di malattia, ma assai più l’assistenza volontaria ai terminali, spesso giovani, e le notti passate con loro interrogandosi sull’esistenza in vita e sul valore e il significato del nostro essere carne e cuore, mi ha riportato in maniera sempre più insistente a ciò che in gioventù mi era sembrato solo un libro da analizzare in punta di filologia e di fonti testuali comparate. E che ora è grandezza di Chi si è fatto carne per aprirci al nostro compito d’amore.



 

Anche quest’anno sarà così, anche se solo per poche ore. Dacché va meglio per me, infatti, faccio i conti di ciò che mi manca nel cuore, quando passavo tutte le notti in trattamenti e ne approfittavo per stare con chi poi aiutavo fino alla fine. Spesso, sempre più spesso, richiesto di parlare di Lui.

La sofferenza esperìta è una delle chiavi più banali, per la riscoperta del senso. Fatemi dunque grazia di non dedicare a questo più di quel che ho già detto, perché io son qui a dirlo, e chi non c’è più mi è stato molte volte, nella mia esperienza, superiore nel cuore e negli atti concreti. Tempo fa, in una notte di Natale tra quelle che non dimentico, mi è capitato di scoprire grazie a uno studente ricoverato un testo che mi è sempre sembrato di una essenziale utilità, da quel momento in avanti. Non è molto conosciuto, è il De diligendo Deo di Bernardo di Clairvaux. Per Bernardo sono quattro i gradi sostanziali dell’amore. C’è l’amore di se stessi per sé, nel senso più carnale ed egotico del termine, diciamo l’amore prevalente, nella modernità destrutturante e spesso diradicante in cui viviamo. C’è poi l’amore di Dio per sé: quello che prova nel nostro mondo laicizzato un sempre minor numero di persone, perché è l’amore per la potenza assoluta di Eloim Sabaoth, il signore degli eserciti dell’Antico Testamento. Io mi ci sono fermato molto, a questa tappa, per il fascino dell’Antico Testamento e dell’Alleanza con il popolo ebraico. Ma ammettiamolo, nel retaggio cristiano rispetto a questo secondo è assai più forte la presa del terzo tipo d’amore, quello verso Dio per Lui, inteso come ente e forza infinita d’amore. Ma il quarto grado è quello che solo ci restituisce all’esperienza vera dell’essere nostra carne, rispetto al Figlio che si fece carne per noi: l’amore verso noi stessi come uomini e donne, ma amore che ci dobbiamo attraverso e per Dio, come testimonianza ed espressione dell’insegnamento e del sacrificio del Cristo. Questa quarta forza d’amore sarebbe per me insegnamento obbligatorio da riservare ai banchieri e finanzieri, nel mondo d’oggi, per riflettere sul disastro che hanno creato dimenticando l’uomo. Ai malati, è molto più facile capirlo.



È questo, il mio Natale laico, di chi si cerca nell’altro per non perdere ciò che Lui ci ha dato.