Il 2009 è alle porte, e le attese per le immancabili ricorrenze e anniversari che porterà con sé sono sempre più ferventi. Ma per concludere l’anno che ha celebrato il quarantesimo dal ’68, abbiamo intervistato uno dei suoi principali protagonisti, Aldo Brandirali, fondatore dello storico movimento di contestazione “Servire il Popolo”, nonché ex assessore al comune di Milano. Una vita costantemente tesa a perseguire il medesimo ideale, quello di venire incontro ai bisogni della gente, sebbene espresso in due momenti cronologici e ideologici radicalmente opposti.
Come è iniziato il suo coinvolgimento con i movimenti di contestazione del 1968?
Come premessa alla risposta vorrei esporre un concetto che mi è particolarmente caro: il ’68 è in primo luogo un fenomeno esistenziale. La forza principale di quel periodo era rappresentata dall’enorme spinta che coinvolgeva un’intera generazione ad uscire dalle strutture tradizionali create dai partiti, interne alla Chiesa stessa e rappresentate anche dalla famiglia. In poche parole si trattava di una vera e propria ventata di problemi esistenziali del tutto nuovi. La gente cominciava ad agire e a pensare senza prendere in considerazione pressoché alcun punto di riferimento. Qualsiasi atteggiamento, qualsiasi relazione veniva reinventata ex novo.
In un simile clima culturale mi trovai pienamente libero di esprimere il mio personale dissenso con il PCI. Nutrivo in quel periodo una profonda insoddisfazione nei confronti di un partito composto da comunisti pro forma e molto “borghesi” nei confronti del potere.
Quindi è arrivato addirittura a fondare un movimento
Avevo il desiderio che l’ideale coincidesse con la vita, da qui è partita l’intuizione di costituire il mio movimento, “Servire il Popolo”. I primi tempi cominciai ad aderire a un movimento che si chiamava “La tendenza”. Si trattava di una specie di frazione di sinistra all’interno del Partito Comunista. Poi formammo indipendentemente un gruppetto di milanesi che si chiamava “Falce e Martello”. A questo gruppo aderirono moltissimi giovani della Federazione Giovanile Comunista, quasi la maggior parte. L’insoddisfazione per il vecchio PCI crebbe e il movimento si allargava, di conseguenza, sempre di più. Andavamo in giro per l’Italia a promuovere le più svariate iniziative. Quando ci fu il terremoto del Belice, ad esempio, andammo subito ad aiutare le vittime. Questa crescita ci spinse a diventare “nazionali” e subito ci ponemmo di fronte al dilemma “Russia o Cina”. Scegliemmo la Cina e nacque Servire il Popolo, sotto ispirazione maoista.
Molti che hanno vissuto il ’68 e che poi hanno criticato quel periodo sono soliti ripetere: «abbiamo sbagliato, ma per lo meno era una generazione di gente che si interessava a tutto il reale». Se questa affermazione è vera, che cosa venuto a mancare secondo lei?
Noi subivamo certamente l’attrattiva fortissima delle grandi ideologie e delle grandi e nuove tematiche mondiali. Sperimentavamo perciò una continua propensione a vivere all’interno di un “noi”, ma con difetto fondamentale: non avevamo la capacità di dire “io”, non pensavamo alle nostre esigenze in quanto singole persone. In atto c’era una fortissima e inconsapevole massificazione.
I giovani di oggi invece affermano prima di tutto il proprio “io”, e questo è un gran vantaggio sotto un certo punto di vista, ma non sanno cosa significhi giudicare le proprie esperienze. Quindi è come se conducessero una sorta di lotta con il niente. Quello attuale è, a tutti gli effetti, un ribaltamento esatto della nostra situazione di allora.
Noi avevamo un “troppo pieno” che ci soffocava, i ragazzi di oggi hanno invece un “troppo vuoto” che non li fa crescere.
Sappiamo che quest’anno è stato invitato a presenziare a numerose conferenze sul ’68. Secondo lei come viene considerato oggi quel periodo?
Personalmente, e purtroppo, ho avuto la continua esperienza di una reazione negativa da parte del pubblico, o per lo meno di una parte. Questo avviene perché quando da un palco affermo letteralmente di non salvare pressoché niente del ’68, le persone per lo più si ribellano. La mia critica molto netta e precisa non corrisponde allo schema mentale che molta gente vuole sentirsi ripetere in questo anno di ricorrenza. È la favola del “metà buono e metà cattivo”, dove una parte dei frutti generati da quel periodo viene vista come qualcosa da conservare, da tenere a esempio. Io non ragiono così. Quando mi viene chiesto di parlare del ‘68 quello che ripeto è che solamente un modo d’essere ti salva dall’ideologia: l’essere una persona. Forse l’unica cosa che in questo senso vedo di positivo in quel periodo è proprio la tensione alla ricerca di un senso della realtà e di sé che caratterizzava però solo alcuni dei suoi protagonisti.
Da un punto di vista prettamente storico c’è una conoscenza più obiettiva o un giudizio dei fatti meno facinoroso?
In parte si è più obiettivi, ma ribadisco che secondo me anche la maggior parte delle persone delle generazioni successive non riesce ad andare al nocciolo della questione che era il carattere di domanda esistenziale. I tentativi di lettura storica per lo più tendono invece a ridurre il ’68 a un fenomeno politico. Qui sta l’errore: non era essenzialmente un fenomeno politico, ma generazionale.
Arcangelo Berra e Mauro Risani hanno curato una tua biografia intitolata “Si può servire il popolo”. È solo una provocazione al passato o c’è anche un tentativo di riabilitare i sentimenti espressi negli anni della contestazione?
Il libro è uscito circa un anno fa. In parte racconta, attraverso l’intervista fattami da Robi Ronza, della mia esperienza nel movimento Servire il Popolo. Per il resto è dedicato alla risposta che nella vita ho trovato a quella tensione che avevo nei confronti del popolo. Esperienzialmente la vita mi ha dimostrato che per servire il popolo occorre partire da circostanze concrete, come la mia attività di assessore allo sport al comune di Milano, e non solamente da infatuazioni idealistiche. Per questo il titolo del libro è una sorta di “revisione” del nome che in gioventù avevo dato al mio movimento.