Il professor Enrico Reggiani insegna letteratura inglese all’Università Cattolica di Milano. Da parecchi anni, però, cura, da studioso di letteratura, una rubrica settimanale sull’inglese dell’economia per Il Sole 24 Ore del Lunedì. È quindi la persona adatta per discutere delle possibili convergenze tra i due ambiti. A partire dall’attuale crisi finanziaria.



Anzitutto vorrei chiarire l’importanza del rapporto tra economia e letteratura. L’economia riporta la letteratura, per così dire, coi piedi per terra, essendo la dimensione economica – nel suo senso ampio: lavoro, produzione, fatica, consumo, denaro, ecc. – l’ancoraggio di ciò che si legge a ciò che si sperimenta quotidianamente. Il che non significa che il testo letterario debba necessariamente essere «realistico»; quelle dimensioni possono presentarsi anche in un racconto fantasy. In Italia il rapporto tra letteratura ed economia è considerato soprattutto dai letterati; negli Stati Uniti invece, i testi letterari sono sistematicamente «saccheggiati» dagli economisti perché sono campionature di casi possibili e vengono addirittura utilizzati per spiegare le leggi stesse dell’economia. Questo dice molto sull’indirizzo che in futuro potrebbe prendere la cultura: maggior interdisciplinarietà, osmosi tra le discipline, unificate dall’interesse per la persona.



Da più parti si è stabilito un nesso tra l’attuale crisi finanziaria e il crack del 1929. C’è stata una «letteratura della crisi» in quegli anni?

Effettivamente ho letto molti interventi che stabiliscono correlazioni tra l’attuale situazione di crisi e quella del ’29. Gli specialisti di economia, ovviamente, affrontano la questione da un punto di vista tecnico e in base ad esso stabiliscono o meno somiglianze tra l’oggi e il passato. È invece più raro trovare un discorso che stabilisca eventuali legami culturali tra quella crisi e l’odierna. Su questo aspetto ho trovato molto interessante un contributo apparso sul New Yorker. L’autore, John Lanchester, si occupa proprio delle radici culturali delle crisi economiche e afferma che c’è una curiosa coincidenza tra la crisi globale del ‘29 e la nascita del «modernismo». Con questa parola si intende sostanzialmente il clima culturale dei primi tre decenni del secolo scorso. Come le arti – le avanguardie artistiche, musicali, letterarie, eccetera – vanno verso un totale scollegamento dalla realtà, diventano autoreferenziali e tendenzialmente astratte, distanziandosi dall’esperienza quotidiana dell’essere umano «normale», così, in quello stesso periodo, il pensiero sull’economia e sulla finanza tende a svincolarsi dal rapporto con il dato concreto, con l’economia reale. Si produce quindi, sia in letteratura che in economia, una divaricazione tra pensiero e realtà.



Si può fare qualche esempio a partire dalla letteratura americana?

La critica definisce la società e la cultura degli anni Venti come «jazz age» o «the roaring twenties». È un’epoca spensieratissima e di grande euforia. Nella dimensione economica è come se molti pensassero di poter diventare ricchi con facilità, magari imitando i grandi magnati d’industria. Anche allora si verificò un fenomeno analogo a quanto accaduto di recente: la gente si indebitava per acquistare. Perché si indebitavano? Perché si era perso il legame con la realtà: erano tutti animati da una sorta di entusiasmo consumistico. I presidenti degli Stati Uniti erano talmente convinti che la locomotiva dell’economia statunitense avrebbe galoppato senza problemi che incentivavano quel tipo di mentalità. La borsa di New York veniva celebrata come una potenza invincibile. Tutto ciò finirà nell’ottobre del ’29 con il grande crash. Che ha dimostrato che la glorificazione delle «magnifiche sorti e progressive» dell’economia americana era fondata sul nulla.

In letteratura c’è una generazione di autori che ha condiviso la convinzione che si stesse vivendo una specie di età dell’oro. Un personaggio che incarna compiutamente questa mentalità è Francis Scott Fitzgerald, che ha vissuto e descritto questa epopea in maniera straordinaria, ma ne ha poi subito le conseguenze negative. Travolto anche personalmente – difficoltà economiche e psicologiche – dalla crisi del ‘29, ne ha pagato il prezzo fino a morirne. Molti altri autori hanno vissuto la sua parabola.

Certamente non sono mancati scrittori che si erano accorti dell’ambiguità e fragilità degli spensierati anni Venti, come, ad esempio, Edith Wharton o Theodore Dreiser, che avevano intuito la falsità dell’euforia dominante. Comunque, tutta una generazione di scrittori degli anni Venti è stata segnata talmente dalla crisi che o si è suicidata o è del tutto scomparsa; tanto che si è parlato di «lost generation».

Quale fu la reazione successiva alla crisi?

L’edonismo degli anni Venti aveva rinunciato a guardare in faccia alla realtà nel suo complesso ed a considerare la responsabilità sociale e morale dello scrittore. La reazione successiva alla crisi fu, quindi, una ripresa proprio di questi due aspetti. Uno degli emblemi di questo nuovo clima è Wystan Auden, che negli anni Trenta fa propria la prospettiva dell’impegno. Per gli scrittori di questo periodo impegno significa l’attenzione alle fasce disadattate ed emarginate della società, l’utilizzo di categorie interpretative genericamente di sinistra e la rappresentazione di contesti sociali prima dimenticati. Negli USA questo ha voluto dire che gli scrittori hanno spostato lo sguardo dalla città all’immenso territorio extraurbano, dalle fasce alte della popolazione a quelle misere. Faulkner e Steinbeck – per fare solo due nomi – si concentrano sui luoghi remoti dalle città scintillanti, dove la crisi aveva scaricato tutto il suo potenziale distruttivo. Il segno distintivo degli anni Trenta è proprio questa «solidarietà narrativa» nei confronti di ciò che non si era mai raccontato nei decenni precedenti.

C’è dunque un cambiamento culturalmente significativo. E questo è rilevante anche per l’oggi. Il «secolo breve» ha perso il legame con la realtà, il nesso tra le parole e ciò che esse indicano. La crisi attuale lo ha evidenziato in maniera lampante. Anche oggi si può forse sperare nel ritorno a ciò che potremmo forse definire un’appassionata e coraggiosa «solidarietà narrativa con la realtà dell’essere umano».