La questione del rapporto tra fede e ragione è recentemente tornata in auge, parallelamente al ritorno sulla scena pubblica delle religioni. In genere il significato dei due termini viene dato per scontato, dimenticando che esso varia assai significativamente a seconda del contesto culturale.
Oggi in Italia si oscilla in genere tra due concezioni della ragione, le quali determinano poi che cosa si intende per fede.
La prima concezione identifica la ragione tout court con la razionalità scientifica secondo un’interpretazione positivistica di questa – un’interpretazione che è ben lungi dall’esaurire la complessità che emerge dalla ricchezza metodologica della effettiva ricerca scientifica contemporanea. La ragione, così razionalisticamente intesa, è essenzialmente identificata con due forme: il ragionamento logico (in cui si può includere il calcolo matematico) e l’esperimento. Da questo punto di vista la fede è una dimensione estranea alla ragione, magari antropologicamente necessaria e ineliminabile, che può essere più o meno tollerata ma che in ogni caso non può possedere alcuna pretesa veritativa.
La seconda concezione recupera altre forme di razionalità più “deboli” come quella ermeneutica, all’interno della quale vige certo un certo rigore metodologico, che tuttavia può aspirare al massimo a una pretesa veritativa di carattere contestuale, vale a dire relativa a una certa “cultura”. Tale seconda posizione culmina in forme di multiculturalismo relativistico, dalle quali è esclusa in linea di principio qualsiasi possibilità di valutazione razionale di una “cultura” rispetto alle altre. Le “fedi religiose” in tal caso non sarebbero altro che opzioni esistenziali ragionevoli e sensate esclusivamente all’interno di quella forma di vita costituita dalla cultura di riferimento.
Come spesso accade quando si ragiona senza problematizzare le categorie che si usano, anche in questo caso è inevitabile una deriva di tipo ideologico. In entrambe le posizioni, infatti, si assiste a uno stile di pensiero incapace di mettere in questione la propria origine, di tematizzare le proprie condizioni di possibilità. In particolare, ciò che si perde di vista è la questione intorno alla legittimità della domanda relativa al senso dell’esistenza di cui la fede religiosa dovrebbe essere la “risposta”. Nel primo caso tale domanda è considerata come l’espressione di una dimensione emozionale, che nulla a che fare con la ragione e a cui la ragione stessa nulla può dire. Nel secondo caso la domanda potrebbe al massimo suscitare una pietas, ma è comunque votata allo scacco.
In ogni caso la questione che si evita di porre è se la domanda esistenziale a cui la fede intende in qualche modo corrispondere sia, da un punto di vista razionale, sensata o meno. Come usava ricordare Reinhold Niebuhr, infatti, «niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone». Senza tale passaggio ogni fede religiosa non può che risultare in-credibile.
Per reimpostare il problema, è opportuno rilevare che, in entrambi i casi considerati, si prescinde dalla considerazione di un fatto indubitabile: chi pone la questione è un soggetto, un io, un chi. La questione, cioè, è posta senza considerare tutti i fattori dell’esperienza che la rende possibile: è posta in una maniera ideologica, che evita di pensare che la ragione è sempre la ragione di un “soggetto”; di conseguenza, per mantenere la propria posizione, si deve escludere necessariamente almeno un fattore dell’esperienza concreta dell’essere umano.
Ciò che permette di evitare tale fallacia è un’interrogazione di tipo filosofico (in particolare fenomenologico) che, pur emergendo dall’esperienza elementare di ognuno, sia capace di un rigore metodologico: chi sono io che domando? E che rapporto c’è tra me e il mio domandare, tra me e la mia parola? E in che senso tale parola è “mia”?
Impostata la ricerca in questi termini, è semplice (anche se non facile) accorgersi che io non padroneggio tale domandare, che io non posso prescindere da esso pena una censura (del resto teoricamente prescritta dai maestri del “pensiero debole”) della mia stessa razionalità: da dove vengo e dove vado? Si tratta di riscoprire che tali domande “esistenziali” sono costitutive della ragione umana, che ciò che la storia e la filosofia delle religioni chiamano senso religioso inerisce alla struttura della razionalità umana in quanto tale.
Solo a partire dal recupero di tale dimensione costitutiva dell’esperienza è possibile riproporre la questione della ragionevolezza della fede, vale a dire dell’apertura della ragione a un’eventuale comunicazione di verità, a una “rivelazione”.
Inoltre la fede positiva (vale a dire l’assenso a un dato storico che porta con sé una pretesa veritativa di carattere esistenziale) è essa stessa l’esito di un uso della ragione che possiede un certo rigore metodologico. Da questo punto di vista la fede è intesa come fiducia in ciò che un altro mi comunica e tale fiducia può a sua volta essere più o meno ragionevole secondo criteri che tutti (anche i razionalisti più radicali), consapevolmente o inconsapevolmente, usiamo nella nostra vita quotidiana.
Parafrasando Pascal si può dire: il “cuore” (la ragione intesa secondo tutta l’apertura di interrogazione di cui è capace, in altre parole il senso religioso) possiede delle ragioni che la “ragione” (razionalisticamente intesa) non conosce.