Quando Leonardo Sciascia scrisse “L’affaire Moro”, il cosiddetto Palazzo rimase quasi scioccato dalla raffinata analisi dello scrittore sulla inconsistenza di quello Stato che si ergeva a grande baluardo della fermezza nei rapporti con le Brigate Rosse, dopo aver dimostrato tutta la sua inconsistenza e la sua debolezza: “È come se un moribondo si alzasse dal letto, balzasse ad attaccarsi al lampadario come Tarzan alle liane, si lanciasse alla finestra saltando, sano e guizzante, sulla strada. Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato italiano è vivo, forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi. Da dieci tranquillamente accetta quella che De Gaulle chiamò – al momento di farla finire – “la ricreazione”: scuole occupate e devastate, violenza di giovani tra loro e verso gli insegnanti. Ma ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate Rosse, lo Stato italiano si leva forte e solenne. Chi osa dubitare della sua forza, della sua solennità? Nessuno deve aver dubbio: e tanto meno Moro, nella “prigione del popolo”.
Ripensando alla razionalità di Sciascia in quegli anni, basata sull’importanza di salvare una vita umana rispetto all’astrattezza ipocrita e pasticciona della “ragion di Stato”, e di quel tipo di Stato, c’è da restare per lo meno sconcertati oggi, di fronte alla inflazione di libri, saggi, articoli del “trentennio” tutti centrati sulla tendenza a spiegare “storicamente”, andando a scomodare dietrologie spesso al limite del grottesco, quell’orrendo delitto: la strage della scorta, la tortura della prigionia e l’uccisione di Aldo Moro dopo 55 giorni.
“Mettere le brache alla storia” è un’operazione che si può fare sia guardando al futuro sia riflettendo sul passato, ma è sempre una teoria che non convince affatto e che non soddisfa l’esigenza della verità. Non ci fu solo Sciascia a descrivere invece una società e uno Stato in crisi profonda, ma anche un uomo come Giuseppe Saragat a sentenziare, guardando il cadavere dello statista ritrovato sull’ormai tragicamente famosa Renault rossa in via Caetani: “Questa è la fine della Prima Repubblica italiana”.
Certo, le indagini, le inchieste, i processi hanno dei buchi neri che fanno rabbrividire e indignare. È un fatto in parte tipico dei delitti politici, antichi e moderni, quello di conservare ambiguità secolari: il frate Ravaillac che uccise Enrico IV di Francia, apparteneva al partito spagnolo o a quello inglese? L’attentato a John Fitzgerald Kennedy fu un complotto, ma collegato a quale lobby politica internazionale? Però, in questo caso, c’è da aggiungere all’ambiguità storica del delitto politico un fattore tipicamente italiano: nessuna chiarezza convincente è stata fatta sulla sequenza stragista e sui delitti ideologici degli ultimi cinquanta anni di storia nazionale.
Inefficienza? Impreparazione? Collusioni? Ragioni di Stato? Complotti nazionali e internazionali all’ombra di servizi segreti? L’impressione è che questo stia diventano un campo sconfinato dove ognuno, a seconda della tesi precostituita o in difesa della sua ideologia passata e presente, cerchi di portare acqua al proprio mulino. Soprattutto cerchi di rimuovere errate valutazioni fatte in quella tragica primavera del 1978, mentre si doveva salvare un uomo, una vita umana.
Forse pochi, tra coloro che hanno vissuto gli anni Settanta, hanno voglia di ricalarsi in quell’atmosfera, in quell’epoca sanguinosa e nello stesso tempo surreale, quando occorreva mettere in conto, nel vivere una vita pubblica anche modesta, di incappare in una situazione di violenza ideologica.
Nessuno ammetterà mai che in quegli anni si consumavano i riti del berlinguerismo, cioè dell’ultima fase del partito comunista italiano nella sua corsa al consociativismo di governo, secondo una scansione cominciata nel 1973 con un articolo su “Rinascita” dopo la caduta di Allende in Cile, che teorizzava l’incontro e l’accordo tra le due forze più rappresentative della politica italiana, cioè la Dc e il Pci. Una linea che era un disastro politico, anacronistico, fuori dal tempo e dalla logica implosiva che già dimostrava l’Urss nei suoi sussulti finali di “impero del male”.
La carta geografica disegnata a Yalta si stava sgretolando e il Palazzo italiano, che non voleva rinnovarsi nel suo cieco immobilismo, cercava soluzioni consociative all’ombra di un tramonto ineluttabile delle ideologie.
Mentre il livello politico legale marciava su questi ritmi, il livello politico dei “sottosuolo”, quello popolato dai “demoni” cresciuti nel culto fanatico dell’ideologia, si aggregava fin dai tempi del ’68 in un’avanguardia di guerriglieri e terroristi comunisti, fiancheggiati da pezzi di sindacato, da intellettuali di cultura salottiera, da stagionati reduci della cosiddetta “Resistenza tradita”.
Un’area vasta cresciuta nella doppiezza togliattiana e mai veramente combattuta all’interno del Pci e di tanti ambienti di sinistra. Mentre i terroristi attaccavano il “cuore” dello Stato, l’area dei passivi e attivi fiancheggiatori guardava spesso in modo indifferente o connivente. Il Palazzo, intanto, si disperdeva in giochi politici incomprensibili e dispersivi.
L’affare Moro ha innanzitutto questo retroscena di violenza ideologica, che decide di colpire e di agire, inalberando una bandiera leninista in un mondo in completa evoluzione. Ma come in tutti i mondi che stanno morendo, il momento più pericoloso e dannoso è quello degli ultimi sussulti, delle convulsioni e dei conati prima della morte finale. Di fronte all’affare Moro, i tanti protagonisti della tragica vicenda giocheranno ognuno una partita legata a interessi ormai inesistenti, ma creeranno un incastro mortale che porterà alla tragedia finale.
Guardiamoli questi protagonisti, a grandi linee. Ci sono i brigatisti e l’area del fiancheggiamento. Sono Brigate Rosse italiane, certamente, ma contigue al mondo che viene dall’Est, con i suoi contatti con Kgb, Stasi e altri specialisti in disinformazione e destabilizzazione. I brigatisti hanno pure contatti e diramazioni: dagli avventurieri dell’Hyperion parigino fino ai campi e agli uomini dell’Olp palestinese. Gli uomini delle Brigate rosse italiane non ricevono ordini, ma aiuti, qualche consiglio e qualche suggerimento. Il piano della strage, del rapimento e dell’esecuzione è tutto loro, con supporti logistici forniti da centrali di destabilizzazione. Tuttavia il problema fondamentale è la contiguità, non l’ordine arrivato dal “mondo del freddo”. È l’ideologia, il nichilismo italiano, il leninismo “coltivato” nel Belpaese che agisce e colpisce.
Di fronte a questo fanatismo di odio e di violenza, c’è lo Stato annichilito, c’è la Dc che “riscopre” uno Stato sfasciato e non vuole farsi scavalcare da un Pci minaccioso che, temendo di essere smascherato come “cattivo maestro” o addirittura esposto alle antiche frequentazioni moscovite, eleva l’idolo della fermezza “costi quel che costi”. È tale la preoccupazione che il 4 maggio 1978, cinque giorni prima della morte di Moro, Giorgio Amendola, il più positivamente eretico del Pci, parla con l’ambasciatore cecoslovacco a Roma, Vladimir Koucky, e lo invita a essere prudente riguardo alle Brigate Rosse. I contatti tra Br e cecoslovacchi avrebbero potuto venir fuori durante un successivo processo a loro carico.
La fermezza diventa in questo modo l’alibi per un Pci che mantiene rapporti con l’Est e nello stesso tempo si emancipa con l’eurocomunismo. Morale, la fermezza diventa un monumento d’ipocrisia inconsistente. La fermezza blocca e paralizza la Dc, così come blocca e paralizza tutto l’establishment italiano. È impressionante sfogliare i giornali dell’epoca e guardare come tutti, da destra e da sinistra, passando per la P2, facciano un’ammucchiata intorno alla fermezza, alla difesa di uno Stato e di un sistema politico che è bloccato, ma che serve per assicurare potere e affari. Così non si devono pubblicare i “deliranti comunicati” delle Br, così non si possono pubblicare le lettere di Moro (“moralmente non ascrivibili”). Intorno alla “prigione del popolo” non c’è una caccia messa in atto da servizi e polizia speciale, ma un filo spinato di ipocrisia eretto da un sistema che ha già condannato Moro. E chi non vuole quel filo spinato di ipocrisia, proponendo di trattare, viene indicato come provocatore.
Che cosa c’entra con quel contesto la sequenza delle rievocazioni dietrologiche di questi giorni? Oggi sono lì tutti a chiedersi: chi ha sparato? quanti hanno sparato? il superkiller? la moto Honda? l’appartamento? il falso comunicato numero 7 e il Lago della Duchessa? l’ostilità del Segretario di Stato americano Henry Kissinger verso la politica di Moro? paura dell’incontro Dc-Pci e dell’eurocomunismo? Rispetto all’azione brigatista, maturata in anni di fanatismo ideologico italiano, tutto il resto è un contorno, che magari può servire a costruire scenari di complotti di ogni tipo e aiuta a dimenticare il contesto reale. “Il delitto Moro”, così titolò il Corriere della Sera del 10 maggio 1978 è soprattutto una torbida storiaccia italiana, con le implicazioni di alcuni interessati centri esteri, messa in atto da un manipolo di terroristi cresciuti nel Dopoguerra italiano e subita da un establishment immobile e imbelle.