Premessa

Questo periodo della storia contemporanea si colloca fra i primi anni ’60 (segnati dai movimenti di piazza contro il governo di centro-destra di Tambroni e dalla ripresa dei movimenti di sciopero nelle fabbriche) e gli ultimi anni ’80 (con l’uscita dagli anni di piombo, l’ingresso dei comunisti nel governo e la loro conquista degli apparati dello Stato).
La memoria di un pezzo di storia del nostro paese, a 40 anni di distanza, incide sul nostro presente e suscita una riflessione sulla nostra comune esperienza: in questo primo decennio del nuovo secolo, infatti, ci sono ampi tratti della vita pubblica caratterizzati dalle pretese di modernizzazione che provengono da quel periodo.
Il presente ci pone domande sulla coscienza dell’uomo moderno. Da dove ha avuto origine il diffuso cinismo caratterizzato dal nichilismo come atteggiamento esistenziale prevalente? Non c’è più una tradizione, non c’è ragione di avere domande sul senso del vivere, non si difende la vita, non c’è appartenenza a un popolo, ci si accontenta tutt’al più di uno spiritualismo religioso e di un buonismo sociale.
I movimenti del ’68 hanno portato sconvolgimenti sicuramente significativi, ma non avendo realizzato nulla di quanto era presente nella loro domanda ideale, è comprensibile che prevalga sul ‘68 un giudizio di fallimento. Qualcuno si sente però ancora in sintonia con quel periodo, e va ripetendo “magnifici quegli anni!”, perché difende la modernizzazione a cui il ’68 avrebbe contribuito; difficilmente, però, si può sostenere che quei movimenti giovanili avessero davvero in mente la modernizzazione. Mentre non si può negare che i tratti diffusi della modernizzazione sono presenti in tutto l’Occidente, anche dove il ’68 non c’è stato.
Allora a che serve riflettere su quel periodo chiamandolo “il ’68”? Io penso che la storia di quegli anni sia l’esperienza di un’intera generazione che ha dovuto affrontare il proprio cammino, e che nel tentativo di capire i propri errori ha rischiato di buttare via anche l’intensità delle esperienze e delle domande che si poneva. È a mio avviso opportuno fissare alcuni tratti generali di quegli anni.
 



La crisi ideologica e l’impossibilità dell’unità dei movimenti – La rottura fra generazioni che ha caratterizzato i movimenti giovanili nel decennio ‘67-‘77 è una questione che riguarda più in generale il secolo delle ideologie e la deriva clericale della Chiesa. Tipici di questo decennio sono una generazione non più capace di comunicare con gli adulti e dei movimenti che sono schegge di sistemi ideologici in crisi. Crisi nella quale le domande e i desideri più profondi dell’uomo sono stati falsificati dal “fai da te” delle risposte.
In questo clima, migliaia di giovani si sono raggruppati con un’enorme facilità, anche se poveri di proposte. In comune, essi avevano la critica del principio di autorità nell’insegnamento, il rifiuto della tradizione morale, la fuga dai grandi partiti politici e un forte atteggiamento “esistenzialista”, che portava molti di loro a scappare di casa.
Sul piano internazionale, invece, la guerra nel Vietnam dimostrava che l’equilibrio fra opposte superpotenze non era un fattore di pace: questo ha generato una diffusa attenzione alla cosiddetta “terza via”, e al prevalere di illusorie tendenze pacifiste fondate sulle culture terzomondiste, il tutto in un’atmosfera decisamente antiamericanista.
 



Il pensiero astratto degli intellettuali di sinistra – Altro carattere tipico della cultura degli anni ‘60 è la presunzione sconfinata degli intellettuali di sinistra, incapaci di criticare le ideologie e continuamente alla ricerca del movimento autonomo del pensiero che insegue le teorie invece di guardare l’esperienza; il che, di fatto, è una riproposizione della chiave di lettura illuministica nella stessa forma dalla quale nacquero le ideologie. È qui che nascono i miti su Cuba e sulla Cina, come astratta passione per l’egualitarismo cinese e il rivoluzionarismo di professione nell’America Latina. Il tutto incomprensibilmente mischiato con temi come la rivoluzione sessuale e il femminismo, nel quadro di un generale esistenzialismo che doveva rivoluzionare l’Occidente.
Per quanto invece riguarda la destra, si registrava il desiderio di far rivivere i valori rivoluzionari del primo fascismo prendendo spunto dal clima sovvertitore di quegli anni.La grande questione etica che il fascismo diceva di voler portare dentro lo Stato è tuttora rimasta come una nostalgia irriducibile nei circoli di destra. La cultura “di destra” si è trovata così intrecciata con l’esistenzialismo degli extra-parlamentari di sinistra, all’interno di una logica di centralità della politica che sembrava essere l’unica occasione possibile di idealità per i giovani di quegli anni.
 



La mia esperienza

Per quanto mi riguarda, sono nato comunista. Educato al marxismo da un anziano muratore di Sesto Calende, già nel 1958 ero attivo nella campagna elettorale per il Pci. Mi sono buttato fin da subito nella militanza politica, ma i dirigenti del partito erano ben diversi da quel muratore; sentivo che erano costituiti da ben altro che il puro idealismo comunista. Da tutto questo dissentivo, e non avevo nessuno a cui poter fare riferimento. Nel Luglio del ’60 sono stato fra i giovani operai descritti come “i giovani dalle magliette a strisce”. In fabbrica ho dato avvio a grandi cambiamenti nella vita sindacale degli operai. Questo mi ha portato a lavorare alla CGIL, fino ad arrivare a Roma, alla direzione nazionale dei giovani comunisti. Io, però, continuavo a sostenere le posizioni di chi era critico verso il Partito.
Il mio dissenso mi ha messo insieme ad altri giovani nella decisione di costituire un gruppo a parte, e di vivere assieme in una comune. Siamo nel 1967, il mio gruppo si chiamava “Falce-e-martello”; nella Comune mettevamo insieme i soldi e ci dividevamo il lavoro di casa, eravamo in dodici. L’esperienza della Comune durò meno di due anni; negli ultimi tempi era diventato un luogo sporco, privo di unità, fallimentare nelle sue regole di vita.
 

La scelta di essere extra-parlamentari – Quando esplosero i movimenti, noi eravamo sempre più alla ricerca dell’autenticità del comunismo, perché volevamo che esso fosse decisivo nel quotidiano, e così ci siamo inventati uno schema esistenziale isolato dal contesto d’insieme della società.
Era un’orgia di ideologia, ovvero di una linea politica che spiega tutto. Ma in questo non c’era altro che un linguaggio del passato, che non sapevamo superare criticamente. Il nostro errore non è stato tornare a Lenin e Stalin quando già tutti i compagni avevano criticato Stalin e l’idea di rivoluzione. Il nostro vero errore è stato rompere con la società, vivere in contesti paralleli dove l’irrealismo poteva farla da padrone.
 

Servi sciocchi – In questo mondo separato ho fatto io i discorsi sulla nuova moralità e sullo stile di vita proletario. Discorsi che avevano fascino su un mondo in crisi permanente, ma che altri hanno trasformato in rivoluzione dei costumi, in un contesto fatto di socialismo economico (cooperative e statuto dei lavoratori) e di liberalismo morale (aborto e divorzio). Queste riforme non sono state frutto dei movimenti giovanili, bensì dell’uso che di quei movimenti le forze politiche prevalenti hanno fatto.

Morte di un’utopia – A questo punto si inserì la questione della violenza e del terrorismo, perché le vere tensioni ideali si trovavano ancora più chiuse in un mondo separato; un mondo nel quale sembrava non vi fosse altra possibilità che imporsi con la violenza ad una maggioranza che era sottomessa al potere. Il terrorismo chiuse la vicenda del ’68, e pochi estremisti obbligarono tutti gli altri a farsi da parte per non mischiarsi con questa violenza.
In tutti iniziò la “riflessione autocritica”, che per molti diventò una semplice normalizzazione, cioè il rientro nella politica tradizionale, possibilmente di sinistra, ma pacifica e di governo. Per me invece la riflessione diede inizio a una crisi profonda: mi misi a fare l’elettricista, e nel contempo cercavo in ogni modo di capire perché il comunismo contenesse la brutalità del potere che nella teoria diceva di voler abbattere.
 

La ricerca di un uomo disperato – Nel dicembre 1975 provocai lo scioglimento del mio movimento politico, l’Unione dei Comunisti Italiani marxisti-leninisti, noto anche per il settimanale “Servire il popolo”. Così 15.000 militanti furono posti di fronte alla personale responsabilità di capire dove stavano gli errori.
Fino al 1982 ho portato avanti un lavoro personale che mi ha condotto fuori dal marxismo e che ha approfondito la mia comprensione della natura umana. La questione era diventata antropologica: cosa costituisce l’uomo sin dai primi passi? Sono giunto così alla scoperta che tutta la forza dell’uomo dipende dal suo colloquio con il Mistero che lo costituisce. Ho scoperto l’insopprimibile senso religioso dell’uomo, e mi sono messo a cercare chi mi poteva parlare di questo carattere dell’umano. Sono andato a cercare don Giussani, pur non sapendo nulla del suo insegnamento, ma intuendo che egli poteva rendere congruente con la vita di oggi questo senso religioso.
Incontrando don Giussani ho risolto il primo degli errori del ’68: il rifiuto dei maestri. La prima cosa che mi venne da dire a Giussani – siamo nell’ottobre dell’82 – fu: “Dove sei stato fino ad ora? Io ti ho sempre cercato”, ovvero avevo trovato un maestro!
 

Il cammino di conversione – Il contenuto più profondo del cambiamento di mentalità che mi accade convivendo con i cristiani è la fine della dipendenza dal “noi” come espressione politica della posizione umana. Con Cristo sono io che devo imparare ad usare la mia libertà; ma allo stesso tempo, nella scoperta dell’io, ho potuto riscoprire anche il vero significato di un “noi”: basta guardare cosa ha generato nella storia il popolo di Cristo. Oggi dico questo, ma sono passati 25 anni e il cambiamento di mentalità è stato lungo e travagliato; anzi, ho scoperto che proprio questo cambiamento, che parte dal riconoscere che non sono io a darmi la vita ma è Cristo a vivere in me, è il vero contenuto del vivere.
 

Conclusione

In definitiva posso dire che eravamo anti-borghesi, eppure abbiamo servito la borghesia. E questo si spiega solo ora, dopo tanti anni. Eravamo gli ultimi romantici che sostenevano le ideologie del ventesimo secolo ormai agonizzanti. Non avevamo capito il dato profondo del dominio delle ideologie (il che vale anche per quelli di destra di quegli anni), cioè non avevamo capito che la pretesa illuministica dell’uomo, che si fa con le sue mani e non ha bisogno di Dio, finisce nell’uomo che perde la propria libertà.
Quale messaggio, dunque, mi sento di dare ai giovani di oggi? State semplicemente all’esperienza, non abbiate paura di sbagliare, ma prendete atto di quello che non va bene, aprite la ragione a tutti i dati che il vostro sguardo abbraccia! Imparare ad essere liberi non vuol dire non avere ideali – ed essere quindi “più realisti del re” – ma anzi cercare il Maestro vero, quello che salva il cuore, che compie il desiderio.
Adesso non rimpiango i miei anni da contestatore, sono anzi grato a quella misteriosa energia del cuore che mi ha fatto muovere continuamente, e grazie alla quale mi sono lasciato convertire dai fatti, così che la mia vita ha preso gusto in continuazione: questo mi accade anche oggi, che vivo nella gioia di aver ritrovato il desiderio del cuore di quando ero ragazzo.
Nella conversione al cristianesimo ho compreso che non esiste il male da una parte e il bene dall’altra. Non esistono superpotenze malefiche capaci di pianificare l’uso del potere controllando tutti gli uomini: sarebbe come dare ragione all’autosufficienza, come riconoscere che ci sono uomini che senza Dio sono invincibili. Certo il male esiste, ci attraversa tutti e in alcuni è particolarmente dominante. Ma con tutti gli uomini si può esercitare un richiamo al bene, e per questo siamo tutti chiamati a far agire il meglio dell’uomo. Sbagliano quindi coloro che impediscono all’uomo di percorrere la buona strada; quelli che vogliono programmare la vita dalla culla alla bara e quelli che credono solo nei rapporti di forza. È contro di loro che dobbiamo combattere, non come persone, ma per le loro azioni.
Non è la politica il luogo dove la persona trova la sua identità: questo è il dono che mi ha dato il cristianesimo. Io sono fatto dall’appartenenza a Cristo, e dunque al popolo che la sua Presenza genera. Per questo torno oggi a servire il popolo, come intuitivamente avevo detto nel ’68: un popolo che, costituito dalla Carità, è in azione, costruisce e si aiuta. Sono tornato a far politica per rappresentare questo popolo, perché desidero che la politica sia al servizio di quel che già esiste e non pretenda di generare la realtà mediante il potere.
 

E’ ora di generare una nuova politica – Il potere ha l’ineludibile funzione di prendere le decisioni per la vita pubblica, e ricerca per questo forza e stabilità. Spesso però il ceto politico si convince che il popolo è illuso e istupidito, e che l’autorevolezza del governo e la stabilità si acquistano riducendo la partecipazione del popolo alla politica. Il superamento delle grandi ideologie del ventesimo secolo ha portato dietro di sé una forte componente di cinismo sul destino umano. In alcuni sistemi politici questo è particolarmente evidente: il modello cinese, ad esempio, è riuscito ad ottenere il più alto grado di sviluppo economico con la più feroce delle dittature politiche. L’estremismo islamico, per citare un altro esempio eclatante, genera un grande potere di vertice conquistando le folle alla cultura della morte. Ma la questione riguarda anche la civiltà occidentale, come si evince dall’osservazione di realtà come la Svezia, il Sud-Africa, l’Australia, di modelli politici massonici oppure neo-conservatori.
La cultura cattolica liberale si fonda sull’incontro universale degli uomini e sulla libera espressione delle comunità umane. È a partire da questa cultura che la politica riafferma la sua alta dignità, il suo essere “suprema forma di carità”, come ci ha detto la Chiesa.
La politica “vera” è fiducia nel popolo. Una fiducia che si fonda su due intuizioni: a) la comprensione che il popolo non è una realtà naturalistica, ma è generato da un fattore capace di positiva unità e collaborazione fra gli uomini; b) la presenza di una dinamica educativa che deve sempre caratterizzare la vita di ogni persona e dunque anche di un popolo.
La politica, così concepita, rende il popolo consapevole delle proprie ragioni nei confronti del potere; allo stesso tempo essa fornisce al potere la capacità di tener conto della complessità della realtà sociale. Questo è il lavoro da fare. È alla coscienza di questo lavoro che io cerco di rendermi utile.