C’è un metodo molto semplice per evitare la deriva nostalgica o reazionaria nelle rievocazioni del Sessantotto: basta guardare all’oggi. Concentrarsi, cioè, su quelle che sono le conseguenze, nella società attuale, di quel grande movimento di protesta che ha segnato la nostra storia recente. I ragazzi che vanno adesso a scuola, ad esempio, oltre a riprodurre stereotipi come le continue “okkupazioni”, che cosa hanno ereditato, di positivo o di negativo, da quei fatti accaduti quando ancora non erano nati? Ne parliamo con Paola Mastrocola, insegnante, scrittrice, vincitrice del Premio Campiello 2004, nota per i suoi giudizi spesso controcorrente nel parlare di scuola, di giovani, di educazione.
Si parla spesso di una scuola “prima” e “dopo” il Sessantotto: ma in cosa consiste veramente questa rivoluzione che avrebbe travolto il nostro sistema scolastico?
La scuola prima del Sessantotto era pensata per le elite; dopo, invece, è nata la scuola di massa. La scuola di prima era meritocratica; quella dopo non lo è più. Dovendo esprimere un giudizio, il problema è proprio che la scuola dopo il Sessantotto non è più né di classe, né meritocratica. Si sono affondate entrambe le cose, di cui però una, la meritocrazia, era decisamente positiva. Io ho ancora impresso il ricordo di insegnanti di liceo che a fine trimestre chiedevano a noi che voto mettere in pagella. Un atteggiamento come questo implica la distruzione dello studio, del merito e dell’autorità. Tre cose importantissime, che sono cadute proprio dopo il Sessantotto. Il problema del merito viene affrontato da molti, in questo periodo.
Ma ci può essere una scuola di massa che sia anche scuola che premia il merito?
Effettivamente va un po’ di moda, adesso, dire che si è meritocratici. Non so se sia un’utopia, ma a me piacerebbe una scuola che avesse un livello molto alto, che chieda moltissimo ai giovani (molto studio, molto impegno, molta concentrazione) e che chieda molto anche agli insegnanti, in termini di preparazione e di passione. Una vera grande scuola. Fissato questo, allora sì mi piacerebbe che si aiutassero i deboli, soprattutto i deboli economicamente. Quello che mancava nella scuola di una volta era l’aiuto a quei ragazzi meritevoli, che avessero però alle spalle famiglie non all’altezza. Se noi aggiungessimo questo, senza però abbassare il tiro, avremmo fatto molto. Una strada evidentemente molto lunga.
In un suo intervento lei ha criticato uno dei “mostri sacri” del Sessantotto: don Lorenzo Milani, e la sua Lettera a una professoressa. È ancora convinta di quel giudizio?
Io ho attaccato le conseguenze del messaggio di Don Milani. Credo che quarant’anni fa il libro di don Milani Lettera a un professoressa fosse necessario, e non voglio sminuirlo. La mia polemica è sull’oggi, e su come ancora oggi si segua quel modello, che, secondo, me nemmeno lo stesso Milani seguirebbe più. Le cose sono cambiate, e non ci sono più i figli dei contadini di cui parlava Milani. Noi a scuola abbiamo altri problemi: abbiamo i figli viziati dal nostro benessere, figli a cui abbiamo dato tutto, a cui non abbiamo insegnato nulla e che non studiano più. Figli che non aprono più un libro. Tanto di cappello a quello che ha detto e che ha fatto don Milani, ma adesso i problemi sono altri.
Quindi potremmo dire che, per mantenere veramente fede all’essenza del messaggio di don Milani, bisogna ora applicarlo in maniera diversa?
Sì, anche se in realtà c’è un altro punto del messaggio di don Milani che non è più assolutamente attuale: il fatto che egli dicesse «non studiamo più Foscolo, non insegniamo più l’Iliade del Monti», cioè non facciamo le cose difficili e incomprensibili. Oggi invece bisognerebbe dire esattamente il contrario: «insegniamo le cose difficili e incomprensibili». Oggi, in un clima di appiattimento generale, dobbiamo semmai combattere il linguaggio televisivo, e quindi a maggior ragione far studiare l’Iliade del Monti. Potremmo dire che oggi il Monti è l’antidoto che abbiamo contro la Tv. Tra l’altro, devo anche aggiungere una cosa che constato nella mia esperienza di insegnante: quando insegno l’Iliade del Monti, gli studenti sono tutti molto felici, e la trovano molto più bella di tutte le infinte traduzioni prosaiche che abbiamo fornito loro. Il messaggio quindi è: i ragazzi non sono stupidi, siamo noi che li abbiamo resi stupidi.
La degenerazione che ha subito la scuola dopo il Sessantotto è stato frutto di un tradimento di ideali buoni, o erano quegli stessi ideali ad avere in sé il germe di questa negatività?
È stato purtroppo l’insistere su quei principi che erano buoni, ma che sono inattuali oggi. Ci sono molti miei colleghi che dicono: «dobbiamo portare i ragazzi al sei, portare tutti alla sufficienza, dobbiamo facilitare i compiti e le lezioni, perché i ragazzi non tornino sulla strada». Questo è un messaggio pericoloso. La scuola del Sessantotto ha voluto giustamente portare tutti a scuola; però il problema è che io non dovevo abbassare così tanto il livello scolastico con lo spauracchio che altrimenti i ragazzi tornano in strada. Questo è una specie di ricatto, di auto-ricatto, molto ideologico. L’ideologia, secondo me, è proprio una delle ragioni dello sfascio della scuola oggi; e, paradossalmente, continua ad esserlo oggi che le ideologie sono morte.
Eppure uno degli obiettivi che deve prefiggersi la scuola non è proprio quello di evitare la dispersione, aiutando coloro che trovano difficoltà nel proprio percorso?
Il vero problema è che si continua a dire, sull’onda dell’ideologia “sessantottesca”, che la scuola deve difendere i deboli. Ma chi sono oggi i deboli? Secondo me, e ho cercato di dirlo con i miei libri, forse sono i “bravi” i veri deboli, gli indifesi della scuola di oggi. Adesso, da una decina d’anni, c’è una scuola basata sul concetto di recupero, e con il ministro Fioroni lo è stato ancora di più. Tutte le scuole italiane stanno facendo una doppia scuola: quella del mattino, e quella del pomeriggio per il recupero. Tutto questo è stare dalla parte di chi non studia, di chi non apre un libro, ed è invece a tutto svantaggio dei bravi, che si sentono ripetere sempre le stesse lezioni. Questa è proprio una gran brutta eredità del Sessantotto!
È dunque attuabile il progetto di una scuola per tutti, che non sia una scuola abbassata al livello dei cosiddetti “lavativi”? Può essere un progetto, o è semplice utopia?
Io mi limito a dire questo: può esistere in astratto una scuola per tutti? Io posso dire che quando ho di fronte almeno un terzo di ogni classe di ragazzi che non hanno la minima voglia di studiare, me lo chiedo. Stiamo facendo la cosa giusta? Anche il fatto di innalzare l’obbligo, siamo convinti che sia una cosa giusta? Siamo convinti che dobbiamo forzare tutti a studiare? E se lo studio fosse invece una cosa, non dico per pochi, ma non per tutti? Direi che non c’è alcun male se qualcuno si dedica ad arti pratiche.
Basterebbe, ad esempio, riconoscere alla formazione professionale il valore di assolvimento dell’obbligo scolastico…
Certamente. Io penso che siamo entrati in una strada senza uscita se pensiamo per i nostri figli che l’unica scuola, la “migliore”, sia il liceo classico. Noi dobbiamo arrivare, cambiando la nostra mentalità (e qui la scuola non c’entra, c’entrano le famiglie) a pensare che un figlio può essere una persona stupenda e avere una carriera professionale, sia che faccia il liceo, sia che faccia un’altra strada. Tra l’altro, studiare contro la propria volontà è fonte di infelicità e di frustrazione. In nome del mitico obbligo, la scuola sta forzando la natura degli esseri umani.