Il rapporto tra Stato e Chiesa, e quindi della libertà di quest’ultima rispetto al primo, è un tema di carattere giuridico ed essenzialmente politico, ma non è affatto un problema strutturale. Esso non deriva cioè da una conflitto tra due strutture analoghe, bensì dalla debolezza e dal carattere incompleto della qualificazione laica dello Stato, quanto dalla scarsa visibilità della valenza carismatica della Chiesa. Stato e Chiesa gravitano infatti su due piani completamente distinti, ed è proprio il riconoscimento di questa differenza radicale che struttura il carattere democratico e laico del primo e quello carismatico della seconda, impedendo le derive totalitarie da un lato e clericali dall’altro.



Osservate sul piano sociologico, le chiese non hanno nessuna valenza sul piano organizzativo. Sotto l’aspetto burocratico sono infatti delle organizzazioni come le altre e, proprio per questo, sono suscettibili delle stesse modalità di analisi. La loro specificità risiede invece esclusivamente – ed interamente – nella loro fondazione carismatica, dove il carisma riguarda sia quanti ne fanno parte, sia il tipo particolare di bene che sono tenute a distribuire. Questa caratteristica impone alle chiese sia il mantenimento della qualificazione carismatica delle persone che le compongono, sia quello della distribuzione permanente dei beni carismatici che detengono, assicurandosi così il massimo spazio possibile per la propria attività di evangelizzazione. Le chiese, infatti, differiscono da qualsiasi setta proprio per l’obbligo di diffusione e di annuncio della rivelazione carismatica che detengono in forma esclusiva.



È a partire da tale obbligo che le chiese sviluppano tanto le attività di formazione e di educazione, quanto la messa in opera di un intero universo di rappresentazioni comprensibili sul piano simbolico. Le chiese, e in particolare quelle derivanti dalle religioni monoteiste, mirano alla costituzione di una “personalità etica unitaria” e proprio in conseguenza della loro natura carismatica, operano sulle condotte di vita.
Lo Stato laico moderno, da parte sua, si definisce invece a partire dal suo carattere immanente e razionale. Esso è fondato non su base carismatica, ma su di una procedura legale-razionale che ne sancisce la legittimità assoluta. Tuttavia è lo stesso principio di razionalità che ne fonda l’autorevolezza e ne stabilisce il primato che, come segnala Ernst Troeltsch, ne sancisce l’insufficienza etica. Lo Stato moderno, per definizione, non ha alcunché di “etico”, intendendo con tale termine la scienza della condotta umana. Il suo compito non è affatto quello di normare il dover essere morale di ogni soggetto, né di condannare l’immoralità in sé. Esso può solo sanzionare i danni che, in conseguenza del comportamento immorale, ledono altri soggetti.



Ogni tentativo dello Stato di ergersi a Stato etico, accedendo alla sfera privata delle condotte di vita dell’uomo, dà vita a derive totalitarie. Non è un caso se tutti gli Stati totalitari, ansiosi di fondare l’uomo nuovo, finiscono sempre per non sopportare la presenza delle chiese e si trovano costretti a imbavagliarle. È il trascendere nella sfera etica, fisiologico nello Stato totalitario, che ne rende improrogabile l’estensione del potere anche su istituzioni etiche, come la chiesa e la famiglia. Ed è proprio in conseguenza di questa sua estensione nella sfera etica che il suo potere diviene assoluto.
Ciò permette di capire perché dietro il problema della “libertas ecclesiae” non c’è la rivendicazione corporativa di un’istituzione che reclama privilegi, bensì l’esigenza dello stesso Stato laico che – proprio al fine di preservare la propria natura democratica – riconosce la propria insufficienza etica e la propria impossibilità strutturale a normare le condotte di vita. Qualsiasi riconoscimento della Chiesa non implica quindi – come erroneamente viene spesso detto – quello di uno “Stato nello Stato”, ma implica la presa d’atto dell’alterità radicale delle istituzioni a fondazione carismatica, che si occupano proprio di quella dimensione etica rispetto alla quale lo Stato è strutturalmente insufficiente.

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