Dopo i giorni incandescenti di una tornata elettorale che ha cambiato, sotto molti aspetti, la fisionomia politica del nostro Paese, ilsussidiario.net ritorna a parlare di uno dei concetti che proprio durante la campagna elettorale abbiamo affrontato e approfondito, ritenendolo un elemento imprescindibile della discussione e dell’azione politica: la «libertas Ecclesiae». E ne parliamo con un liberale “doc” come Piero Ostellino (giornalista, scrittore, già direttore del Corriere della Sera negli anni Ottanta), a dimostrazione che il tema non riguarda certo uno sparuto drappello di fanatici religiosi, ma ha a che fare con i fondamenti stessi del nostro vivere democratico.



Il concetto di «libertas Ecclesiae» ha radici storiche lontane, tardo-antiche e medioevali, eppure rimanda anche a un concetto di libertà di espressione che è tipico della cultura liberale moderna. A cosa dobbiamo allora il fatto che la Chiesa cattolica si sia spesso trovata in conflitto con la cultura liberale?

È vero che in passato tra Chiesa cattolica e cultura liberale c’è stato conflitto. Però oggi la situazione è diversa: oggi la Chiesa, più che con la cultura liberale, si trova in conflitto con la cultura liberal, che è cosa ben diversa. Questa è una distinzione alla quale io tengo molto, e che giudico fondamentale. Tale conflitto si sostanzia nella convinzione, da parte della cultura liberal, che l’azione della Chiesa nel nostro Paese sia eccessivamente invasiva della libertà di pensiero e di coscienza degli italiani, e che ne condizioni profondamente gli atteggiamenti e i comportamenti politici. Io vorrei dire innanzitutto che la libertà della Chiesa, e delle Chiese, di professare la propria fede è una delle più importanti, anzi la più importante delle libertà che caratterizzano la cultura liberale. E quindi negare la «libertas Ecclesiae» è una contraddizione in senso liberale. Detto questo aggiungerei che, così come in un Paese di democrazia liberale (come si presume che sia il nostro) ciascuno ha giustamente e legittimamente la libertà di esprimere il proprio pensiero, non vedo perché questo tipo di libertà non dovrebbero averlo le gerarchie ecclesiastiche e la Chiesa tutta.



I cattolici, però, non rivendicano semplicemente la libertà di espressione, che è appunto un principio quasi scontato in una democrazia liberale, ma anche il fatto che la fede non sia relegata al privato, ma possa incidere nel dibattito pubblico. Come giudica questa richiesta?

Io, come vecchio liberale, sono sempre stato della convinzione che la fede, come appartenenza ad una religione, fosse una questione di coscienza individuale. È stato così da sempre, o meglio è stato così dalla pace di Westfalia, con la conferma del principio «cuius regio, eius religio», che poneva fine alle guerre di religione in Europa. Questa è stata una grande conquista dal punto di vista della cultura liberale, per l’epoca in cui è avvenuta, perché poneva fine alle divisioni che attraversavano la sfera politica e contrapponevano gli uomini e gli stati, l’un contro l’altro armati sulla base di adesioni di tipo religiose.



Il principio «cuius regio, eius religio» rappresenta però una forte limitazione della libertà religiosa…

Allora non la poneva, o per lo meno in alcuni Stati l’ha posta e in altri no. Certo, anche un grande liberale come John Locke riconosceva a tutti il diritto di libertà, tranne che ai cattolici, in quanto riteneva che fossero un pericolo per la stabilità della Gran Bretagna. Però diciamo che erano altri tempi, cioè tempi in cui le guerre di religione erano all’ordine del giorno e avevano un potenziale di divisioni e lacerazioni molto forti, e anche sanguinose.

Qual è la differenza principale fra quel periodo e il momento attuale?

Allora non avevano fatto irruzione nel mondo quelle tematiche che la scienza ha portato invece nella società di oggi, e che riguardano profondamente la sfera pubblica, e non solo la libertà di coscienza. Quindi non c’è nulla di stupefacente nel constatare che oggi convinzioni che nascono da una scelta etica, e nella fattispecie religiosa, e nella fattispecie cattolica, abbiano cittadinanza anche nella sfera pubblica, nel momento stesso in cui nella sfera pubblica hanno fatto irruzione tematiche che hanno una fortissima incidenza di carattere etico.

Questo mutamento giustificherebbe dunque una presa di posizione pubblica da parte della Chiesa cattolica in determinate materie? E in che modo dovrebbe attuarsi questa presenza pubblica della Chiesa?

Per capire questo possiamo prendere, a titolo di esempio, il caso di attualità più clamoroso, anche perché si è tradotto in una iniziativa politica: il caso del mio carissimo amico Giuliano Ferrara. Ferrara non ha mai detto di voler abolire la libertà di scelta della donna, e cioè di abolire la legge 194; Ferrara ha detto che era contro l’aborto dal punto di vista etico, cioè che considera l’aborto una mostruosità morale. Ferrara aveva promosso una iniziativa (alla quale purtroppo ha poi dato una connotazione politica, e in questo è stato a mio avviso il suo errore) con un contenuto fortemente etico, e che riguarda profondamente la vita sociale degli italiani, non quella religiosa. Cos’è accaduto? Di fronte a una iniziativa etica così profondamente e intimamente etica, la stessa Chiesa è stata estremamente prudente. La Chiesa non ha chiesto l’abolizione della legge 194; la Chiesa si è pronunciata ancora una volta contro l’aborto affermando, e su questo non c’è dubbio, che l’uccisione di un bimbo in grembo alla madre, per quanto ancora nelle primissime settimane di vita, sia da un punto di vista etico un delitto. D’altra parte, però, la stessa prudenza della Chiesa dimostra che in una democrazia liberale ci sono due livelli, che non vanno confusi sotto il profilo legislativo: il livello morale (l’aborto è obiettivamente, che piaccia o no, un delitto), e il livello politico, o legislativo, che assicura alla donna la libertà di scelta. Questi due piani sono stati tenuti distinti, seppure in modo tacito, persino dalla Chiesa. In questo consiste a mio avviso la grande modernità della Chiesa stessa.

Potremmo a questo punto ribaltare l’accusa: non è forse spesso lo Stato che, intendendo legiferare in materie che riguardano sia le convinzioni personali, sia quelle che si sono sedimentate nella storia degli uomini, commette una sorta di invasione di campo? Per esempio, cercando di modificare il concetto tradizionale di famiglia.

Quello della famiglia è un esempio calzante, perché è una convenzione sociale, prima ancora che una convenzione etica: cambiare il concetto di famiglia per via legislativa sarebbe un obbrobrio dal punto di vista storico, sociologico e politico. Uno Stato che si inventasse una famiglia legislativamente, diversa da quella che nella storia e nella società è un fatto consolidato, sarebbe una dimostrazione della capacità della legislazione di sostituirsi al Diritto, con la d maiuscola: sarebbe l’arbitrio, da parte di chi vince le elezioni, di fare le leggi come meglio crede. Questo è u atteggiamento profondamente illiberale. A questo punto, uno Stato che accusasse la Chiesa di difendere la famiglia, e per di più cercasse di impedire alla Chiesa di difendere la famiglia con provvedimenti di carattere legislativo, sarebbe uno Stato autoritario, totalitario, non certo liberale.

Uno Stato etico?

Esattamente: direi anzi uno Stato etico alla rovescia. Sarebbe in fondo (anche se ancora non si è arrivati a questi eccessi) come seguire la legislazione francese del 1905, che ha eletto il laicismo a religione di Stato. Io sono un laico, e non penso che il laicismo sia una religione: se pensassi che fosse una religione, sarei in contraddizione con il mio essere laico.

Parlando del rapporto fra religione e politica, non si può non parlare del viaggio in America del Papa, che si svolge in questi giorni. Che giudizio ha sul rapporto tra fede e politica negli Stati Uniti, soprattutto sotto la presidenza Bush?

Il mio giudizio è lo stesso del più straordinario libro che sia stato scritto negli ultimi duecento anni: “La democrazia in America” di Alexis de Tocqueville. Il mio giudizio è esattamente questo: se c’è un Paese che ha avuto a fondamento della sua costruzione politica la religione, o meglio le religioni, le fedi, e la libertà delle medesime, questo è gli Stati Uniti. L’affermazione è persino stampata sul dollaro, e non c’è presidente americano che non faccia appello a Dio all’atto del giuramento sulla costituzione e di assunzione della propria responsabilità. Inoltre il presidente americano di turno, o colui che ha stampato il dollaro, fa riferimento a Dio in quanto essere superiore al quale non viene data una connotazione religiosa specifica. Da noi, anche per ragioni storiche, quando si parla di Dio si pensa al Dio dei cattolici, e c’è quindi la tendenza a individuare il richiamo a Dio con la Chiesa cattolica e con la sua, tra virgolette, “egemonia” culturale sulla società italiana. La differenza è profonda in quanto non esclude quanto sia importante, negli Usa, la fede in Dio come fondamento della politica e perfino dello Stato, ma contemporaneamente sottolinea il fatto che questa importanza della fede è un fondamento sotto il profilo etico, ma non diventa legislazione. Nei comportamenti politici americani la distinzione (non la separazione, che è cos ben diversa) tra le chiese e lo Stato, o le fedi e lo Stato, continua a restare profonda, pur riconoscendo che la fede in Dio è fondamento importante.

Chiariamo meglio allora qual è la condizione della presenza dei cattolici nella politica italiana.

Io non mi scandalizzo che i cattolici militanti nella politica italiana tendano a portare nell’agone politico le proprie convinzioni religiose. Chiedere al cattolico di dissociarsi totalmente tra un’anima laica (quella del politico) e un’anima di credente (quella del cattolico militante), è un’operazione che francamente mi appare difficile nella coscienza di qualsiasi individuo. Il cattolico non è Dr. Jekill e Mr. Hyde: pretendere che diventi di colpo schizofrenico mi sembra una cosa inaccettabile. Fatto salvo questo, la Chiesa ancora una volta ci insegna come ci si comporta in questo caso. Quando noi chiediamo alla Chiesa di uscire dalla sua ortodossia, dalle sue convinzioni profonde, la Chiesa risponde «non possumus». Lo stesso deve fare lo Stato: mentre sarebbe mostruoso da un punto di vista liberale imporre a color che non sono credenti principi propri della religione, una analoga mostruosità sarebbe quella opposta, cioè quella di impedire ai cattolici di esprimersi politicamente allo stesso modo.

E qual è il fondamento culturale che permette questo speculare atteggiamento di rispetto delle reciproche libertà?

Questo ce lo ha insegnato ancora una volta il cristianesimo: è la centralità della persona, cioè di quello che noi liberali chiamiamo individuo. Il fondamento è la libertà di scelta dell’individuo all’interno della propria coscienza, contro la coercizione della libertà dell’individuo attraverso l’imposizione normativa, sia laica sia religiosa, di comportamenti che ne menomano la libertà. I diritti naturali soggettivi, che orgogliosamente i liberali rivendicano al liberalismo settecentesco, li affermavano già i benedettini nel Medioevo: sono nati lì. L’identità del principio di persona cristiano e il concetto di individuo liberale è molto forte, se si pone al centro la libertà sia nei confronti della religione, sia nei confronti dell’anticlericalismo.

Siamo partiti parlando di conflitti tra cultura liberale e Chiesa cattolica, e arriviamo invece ad affermare importanti identità dal punto di vista culturale…

C’è un’identità culturale che va valutata storicamente; e non è un caso che sotto questo profilo (a parte certe eccezioni di carattere storico, come quella di John Locke) la Common law dei paesi anglosassoni sia infinitamente più sensibile a questa concetto di persona di quanto non lo sia la Civil law nata dalla rivoluzione anticlericale francese. È dalla rivoluzione francese che è nata la spinta al laicismo che diventa religione. Nella Common law questo aspetto non c’è mai stato, perché si tratta di un diritto che nasce dalla tradizione, mentre la nostra legislazione nasce da un atto di imperio di maggioranze parlamentari nei confronti di minoranze. Mentre la Common law rappresenta la generalità della civiltà anglosassone in quanto ne rappresenta la continuazione della tradizione, la legislazione nata dalla rivoluzione francese rappresenta una rottura di questo: come diceva ancora Tocqueville, rappresenta la dittatura della maggioranza nei confronti di minoranze, comprese quelle religiose.

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