Dire che oggi viviamo nell’assenza di progetti ideali, di speranze per il futuro o per una costruttività che investa una comunanza di percorsi e di desideri, dire questo oggi significa sfondare porte aperte. Solitario l’uomo della post-modernità, sola l’Europa che egli abita. L’Europa è sola, è senza altro: il suo altro infatti lei lo avvolge, lo include, lo assorbe fino a farlo sparire. Lo usa. Culture altre, popoli altri le sono a lato, ma non le sono compagni, lei non ne è ospite, non ne è né ospitante ospitata. L’Europa non ospita, e quindi inevitabilmente usa: di altri ha pur bisogno per la sua stessa sopravvivenza economica e politica, di accogliere altri è in grado, talora anche di accudirli, in quel poco di welfare state che le rimane; può provvedere e prevedere la loro integrazione, ma non è in grado di incontrarli, di incontrare la loro differenza.



Che il problema del vincolo politico e/o della pace consista proprio nella capacità di un popolo a ospitare altro popolo – come dice Lévinas – può magari suscitare momentanea emozione, ma si rivela impraticabile per la logica implacabile del discorso in cui l’Europa si avvolge da ormai tre secoli, il discorso “coloniale”, se così si può dire, che è discorso del capitale nella sua evoluzione moderna.
L’alterità dell’altro, l’estraneità della sua cultura e dei suoi dei fa paura, e a questa alterità e a questa paura viene quindi opposto il medesimo, il “proprio”, la stessità del me stesso, la mia rappresentazione di me, per cui nemico è tutto ciò che si oppone all’affermarsi di questo me, sia esso in termini di soldi, di potere, di profitto, ma anche – se non soprattutto – nei termini del mio essere unico attore sulla scena. Un popolo di unici.



Questo è il problema più grave per la coscienza europea, ciò che ne costituisce il tradimento. In passato l’Europa si è costruita ed ha trovato la sua identità nello scambio con altri popoli ed altre culture: proprio in ciò si è dimostrata capace di elaborazione, di incontro, di trasformazione, in cui l’alterità accettata era a beneficio di tutti. In questo, è indubbio che l’esperienza cristiana abbia giocato la sua parte decisiva, anche se – come ha notato Rémi Brague – questa vocazione dell’Europa si vale e piega al suo scopo una risorsa “pagana”, quella di Roma e della sua tradizione. Roma ha saputo trattare il “barbaro” come non nemico, come potenziale alleato nel perseguire l’obbiettivo di una pax che è tale se vale per molti e diversi (a differenza della cultura greca, innamorata della sua lingua e della sua arte, e quindi disorientata laddove si tratti di orchestrare in unità la differenza, la polis essendo un modo altissimo, ma localizzato, di pensare il legame civile).



Il tradimento che l’Europa ha fatto di sé è l’aver adottato una soluzione ancora diversa da quella assimilatrice di Roma: non un inglobamento dell’alterità nelle proprie forme, in vista cioè di un obbiettivo formale di uguaglianza dei cives, ma un soffocamento, un annullamento della differenza. L’altro come altro va reso impotente proprio in quel che ha di specifico, in quanto questo specifico è l’ostacolo al programma universale, quello di un’universale circolazione delle merci. Quel che si chiama omologazione, in realtà, è un cittadino assoluto, solo e senza legami, non “cittadino del mondo”, cosmo-polita, ma un passeggero in perenne transito per non luoghi.

In questo programma di livellamento e di sterilizzazione dell’umano annullato dalle merci, come e dove si reperisce la Chiesa? Che cosa ha da dirne? In questa partita della post-modernità la Chiesa sembra essere altro per eccellenza. Essa infatti si stima – come tutti – nella logica onnivora del gioco che indicavo, ma insieme e contemporaneamente non cessa di affermare la dignità misteriosa e singolare della vita come destino, della vita del soggetto come concreto e irripetibile compiersi di bivi, di prove, di alternative, di scelte possibili, comunque supponendo all’uomo una capacità di legame e di rapporto diverso con la propria mancanza, rapporto diverso che quello di un minus, opponendo alla via obbligante ed unificante della (in)globalizzazione, del dentro-fuori, del senso unico, una logica degli sconfinamenti, dell’eccezione, del margine silenzioso, delle soluzioni plurali.

Allora il cristiano in azione, per quanto stravolto dai meccanismi consolidati del capitalismo trionfante, è in grado di rischiare dei legami, di sostenere un senso positivo della sua mancanza? Non solo in iniziative concrete di sussidiarietà, di no profit: tutto questo è interessante se arriva ad incidere fin nella concezione stessa della democrazia e del vincolo civile. Cioè a tutti e per tutti. Che cos’è una pratica di costruzione di democrazia se non assumersi il rischio della propria identità come alterità marginalizzabile, rischio dell’esperienza di un’inesausta povertà delle soluzioni disponibili come rischio comune?

Ci possono essere due modi di sprecare questo inedito: restare abbacinati dalla memoria e/o dai resti di una società cristiana, conducendo battaglie di campo sul terreno dei valori da difendere piuttosto che come appello all’origine del desiderio e del giudizio, oppure un’alleanza tra cristiani e “laici” non come ritrovamento reciproco delle sorgenti identitarie, ma come accordo sul salvataggio di detti “valori”.
Nel logorio dei linguaggi e delle istituzioni, oggi si pone in primo piano il rischio della libertà come prospettiva – ogni volta non garantita – di verificare nuovi progetti e nuovi compiti. Infatti la genialità di una libertà post-moderna starebbe nel riproporre –in modo nuovo ed inedito – che ciò che vi è di più personale, il rischio appunto di essere liberi, diventi anche – e paradossalmente – unico fattore credibile di razionalità sociale.

Alla speranza, quasi inavvertita, di questo inedito introduce la proposta della Chiesa. “Spe salvi”. La Chiesa è marginale, come tutti, ma per questo sa essere margine, che riquadra e rende leggibile, sceglibile e praticabile l’esperienza del legame, come ecclesia.

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