Lo storico ungherese Paul Hollander, per le proprie idee e per il fatto di essere il figlio di un commerciante, si trovò perseguitato dal regime comunista e costretto, nel 1956, a emigrare. Rifugiatosi a Londra, scoprì che gli intellettuali occidentali descrivevano e magnificavano quelle idee e quei regimi che lo avevano in gioventù costretto alla fuga, e di cui in verità non sapevano nulla. Con un approccio a metà tra il sociologico e lo storico, Paul Hollander cominciò a studiare il rapporto tra gli intellettuali e l’ideologia, scrivendo libri di successo come Pellegrini politici del 1981, dedicato all’analisi dei viaggi che gli intellettuali occidentali compivano in Urss, in Cina, in Nicaragua o a Cuba, o il recentissimo The End of Commitment del 2006.
Ilsussidiario.net lo ha intervistato sul tema del Sessantotto negli Stati Uniti e sul ruolo svolto dagli intellettuali nella contestazione.
Tra il 1963 e il 1968 insegnavo ad Harvard. Era il mio primo insegnamento, un corso provvisorio. Poi, dal 1968, cominciai a insegnare stabilmente all’Università del Massachusetts. Era quello il periodo in cui un gran numero di proteste e vere e proprie rivolte studentesche colpirono la mia università. Gli studenti protestavano soprattutto contro la guerra in Vietnam e contro l’università. Molti corsi vennero interrotti. Il mio corso per fortuna non era uno di quelli, però il clima era strano, un clima difficile, che personalmente mal sopportavo. Purtroppo non c’era libertà in università, non ci si sentiva liberi di affermare le proprie idee: c’era sempre qualcuno che protestava per qualcosa… sempre. Soprattutto si protestava per aspetti particolarmente “americani”: ad esempio per una maggiore giustizia sociale, e per un cambiamento nei diritti delle persone di colore: ricordo che si rivendicava la necessità di un programma di studio apposta sulle persone di colore.
Assolutamente: il ‘68 in America ebbe un significato diverso da quello europeo… addirittura io, per gli Stati Uniti, non parlerei neppure di ‘68. Furono tutti gli anni ’60 a veder montare una febbre. La protesta cominciò a Berkeley nel ‘64 e nel ‘65, col così detto “movimento della libertà di parola”. La protesta, poi, gradualmente, divenne più radicale, e continuò negli anni ‘70.
Gli eventi francesi invece erano più violenti, la Francia conobbe un ‘68 rivoluzionario. Negli Stati Uniti tutto il periodo tra gli anni ’60 e i ’70 fu di contestazione, ma di una contestazione più ampia. Si rigettava la storia, la tradizione, i genitori, l’autorità e la politica. Si rigettava tutto. Era una sorta di grande alienazione. Si protestava ovviamente per il Vietnam. Soprattutto si assisteva a un movimento multiculturalista: spopolavano gli autori africani. C’era un vero e proprio antiamericanismo in America: i ragazzi erano contro il capitalismo e contro la modernità: c’erano le comuni, comunità utopistiche riunitesi nelle campagne basate sull’agricoltura, che a quanto so non durarono a lungo. C’erano anche dei gruppi molto radicali, come gli Sds, che fecero anche attentati, e che avevano anche slogan radicali, e un po’ ridicoli, come “smash monogamy”, schiacciamo la monogamia! Poi, in America il marxismo non era importante come da voi: si sentivano solo alcune parole che potevano servire per slogan anti-capitalisti, ma il marxismo non era un vero e proprio credo.
Tali movimenti avevano il loro epicentro nelle università, quindi l’intellettuale era tutto. I professori si ponevano come alleati, amici degli studenti, si ponevano sul loro stesso piano: dicevano “Ponete il cuore al posto giusto”. C’era una forte carica emotiva. Ascoltavano musica rock e non si vergognavano di fumare gli spinelli. Essi rivelavano un vero e proprio “culto della gioventù”. Ci si ribellava all’autorità dei genitori, dell’accademia, politica, culturale, la gioventù era tutto. Alcuni di questi movimenti sono arrivati ad alcuni estremi, come nell’arte moderna, o nella rivolta contro la cultura occidentale: in America si spostò l’attenzione più sulle minoranze, come quella ispanica, per cercare nuovi modelli a cui ispirarsi.
In America tutti citavano e leggevano Marcuse e Chomsky. A dire il vero non so quanti leggessero veramente quei libri, perché erano libri impegnativi: forse di Marcuse i più capivano che diceva che la società era sbagliata, e questo in fondo bastava loro. Un altro grande nome era quello di Theodore Rozak. Senza intellettuali probabilmente il ’68 sarebbe stato impossibile: erano tanti i professori coinvolti. Uno degli slogan ricordo che diceva “Insegnatelo nei campus!” E chi meglio di un professore avrebbe potuto applicarlo?
In quegli anni ad esempio si abbassarono le soglie della sufficienza e si ammorbidì lo studio delle lingue. Ancora oggi paghiamo quella rivoluzione: oggi è più rigorosa la valutazione dei professori di quella degli studenti! La qualità del sistema educativo e l’arte ormai sono un disastro. Prima le dicevo del programma di studio sulle persone di colore: tale programma di studio venne istituzionalizzato. Il Governo negli anni ’70 lo istituì, e assieme a questo spinse perché nei dipartimenti ci fossero persone di colore, non perché fossero brave, ma solo perché dovevano esserci. E questo non come giustizia compensativa, come è lecito aspettarsi. Non per compensare le ingiustizie che in passato erano state perpetrate contro le persone di colore, ma perché era politicamente più corretto dare dei modelli di riferimento di colore agli studenti di colore, i quali così si sarebbero sentiti più motivati a fare meglio.
Veramente? È strabiliante! È la prima volta che sento qualcosa del genere, in genere tutti simpatizzano col Tibet. Sono veramente stupito.