La Chiesa insiste spesso sulla differenziazione tra il concetto di «laicità» e quello, estremo e inaccettabile, di «laicismo»: esiste secondo lei questa distinzione? E su cosa si fonda?
Io non condivido questa distinzione, non perché in astratto non sia possibile valutare alcune manifestazioni del laicismo come estreme e aggressive, ma perché semplicemente mi pare che questo accada per qualsiasi tipo di atteggiamento intellettuale e politico. Si cerca spesso di sottoporre la laicità a un giudizio esterno, parlando di una laicità buona, e quindi accettabile. Chi è il giudice che decide di questa bontà? Io credo che sia opportuno rimanere fermi sul discorso della laicità, definirlo in modo corretto, senza introdurre questo tipo di distinzione tra laicità e laicismo, distinzione che hanno come vero obiettivo intellettuale e politico quello di ridurre senso e portata al riferimento alla laicità, e ridurre il significato che la laicità assume nei sistemi democratici.
Bisogna però anche ricordare che sono molte le voci laiche che criticano gli eccessi del laicismo, ponendo di fatto la distinzione tra i due concetti.
Questo accade in qualunque situazione: ci sono molte voci cattoliche che criticano in maniera anche severa gli atteggiamenti del Papa. Mi potrei ad esempio riferire alla recensione del Card. Martini al libro di Ratzinger su Gesù. Nessuno a quel punto introdurrà un’idea di religione cattolica buona e di religione cattolica cattiva, da giudicare poi dall’esterno. Ci sono diverse manifestazioni all’interno delle quali discutere singoli atteggiamenti, valutarli e legittimamente criticarli, senza però introdurre categorie che hanno la funzione di depotenziare riferimenti, idee, principi e criteri. Non dimentichiamo che la Corte Costituzionale nell’89 ha sentenziato che la laicità è uno dei principi supremi dell’ordinamento della Repubblica, e non ha introdotto distinzioni.
Benedetto XVI nel suo recente viaggio negli Stati Uniti ha ribadito a più riprese l’insussistenza della dicotomia tra fede e politica: condivide questa posizione? E in che modo secondo lei si può definire il ruolo pubblico della fede?
Credo anch’io che si sia enfatizzato in maniera non del tutto corretta, soprattutto negli ultimi tempi, questa dicotomia tra sfera pubblica e sfera privata. Ci sono molte confusioni, molte delle quali interessate. Che la religione abbia un suo spazio indiscutibile nella sfera pubblica lo dice già la nostra Costituzione. Quando si apre la Carta e si va all’articolo tre e si legge che tutti hanno pari dignità e sono uguali di fronte alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua e di religione, evidentemente già lì si afferma che la religione è presa in considerazione come elemento che definisce la posizione del cittadino nello Stato. In realtà la discussione che viene fatta a proposito di sfera privata e sfera pubblica credo che vada letta in una maniera più corretta. Da una parte, anche l’affermazione che la religiosità appartenga alla sfera privata vuol semplicemente dire che questa è una di quelle questioni rispetto alle quali non ci possono essere imposizioni esterne. Vorrei ricordare che un’affermazione netta della rilevanza della religione nella sfera pubblica noi lo troviamo addirittura nella statuto dei lavoratori del 1970, laddove troviamo all’articolo 8 che il datore di lavoro non può raccogliere informazioni sulle opinioni politiche, sindacali e religiosi dei dipendenti. Questo non perché la religione debba rimanere chiusa nella sfera privata, ma esattamente il contrario: la religione deve poter essere espressa in ogni forma anche sul posto di lavoro senza che questo possa implicare discriminazioni, rifiuto di assunzione e limitazioni da parte del datore di lavoro. La storia repubblicana ha quindi sempre riconosciuto un ruolo della religione nella sfera pubblica Quello di cui però noi dobbiamo essere consapevoli è che la considerazione della religiosità nella sfera pubblica non significa che alla religione si debbano attribuire particolari privilegi, sia privilegi in sé, sia quelli della fede cattolica rispetto alle altre fedi. Questo comporta anche il fatto che le opinioni che arrivano dalle autorità religiose, che certamente per il credente hanno una forza particolare, non hanno poi nella sfera pubblica una valenza maggiore.
Spesso però c’è una forza culturale, nonché una rilevanza storica, che rende particolarmente significativa la posizione della Chiesa, e che viene generalmente riconosciuta.
Sia i cattolici, sia gli appartenenti ad altre fedi, dicono di essere portatori di valori forti. Questo è non solo legittimo, ma anche apprezzabile; tuttavia non significa che io possa imporre la mia scala di valori in ragione del fatto che la mia religione mi dà questa consapevolezza. L’affermazione dei principi esige in democrazia un riconoscimento democratico: la scala di valori alla quale nessuno si può sottrarre è quella scritta in un testo come la Costituzione, convalidato dalla procedura democratica. Quello è l’unico riferimento a cui non possiamo sottrarci: tutti gli altri sono punti di vista.
Il rapporto tra fede e politica, dunque, io lo vedo come difesa intransigente del principio della libertà religiosa in democrazia, diritto, da parte di chi professa la propria fede, che non è solo affermazione astratta di libertà, ma è concreto diritto di manifestarsi. Non c’è dunque conflitto tra fede e politica, e la politica non esclude la religione dalla sfera pubblica. Il punto determinante è che la religione non può dettare la linea alla politica.
Ma cosa significa realmente che non deve dettare la linea? Perché si ha spesso la sensazione che questa affermazione si traduca di fatto in una censura intellettuale nei confronti di qualunque intervento della Chiesa, ancorché legittimato dal punto di vista “procedurale”
Facciamo un esempio: spesso quando la Chiesa interviene su questioni politiche, viene risollevata la questione del Concordato. Io ritengo che il problema non sia questo. Ammettiamo pure che il Concordato venga abrogato: questo non implica che da quel momento in poi cambi significato e peso l’intervento della Chiesa. Io credo che ci sia una legittimità degli interventi da parte delle gerarchie vaticane che esplicano il loro ruolo. Da questo discendono due conseguenze: primo l’assoluta autonomia della sfera pubblica. Chi la pensa diversamente non può essere considerato portatore di una scala di valori deboli. Il problema non è se le autorità abbiano diritto di parlare: il problema è come reagisce la politica. Qui sta il problema della laicità. Il fatto poi di affermare l’esistenza di valori non negoziabili nella sfera pubblica e democratica, questo io non lo ritengo accettabile. Il Papa può naturalmente prendere la parola, ma nel momento in cui prende la parola su determinati argomenti diventa uno dei tanti protagonisti del dibattito politico. E per questo non ci si può ad esempio lamentare del fatto che la presenza di Benedetto XVI alla Sapienza venga giudicata come quella di un leader politico di cui si contesta il punto di vista. Sui temi del dibattito democratico il Papa è equivalente ad ogni altro interlocutore, e non può far valere una sua immunità.
La Chiesa nell’epoca moderna è stata anche una sorta di baluardo contro gli eccessi di potere dello Stato, e soprattutto contro la cosiddetta concezione dello “Stato etico”: cosa pensa di questo ruolo che la Chiesa ha innegabilmente svolto?
La resistenza a qualunque forma di Stato etico che veda protagonista la Chiesa o qualsiasi altro soggetto sociale o individuale è indubbiamente da rispettare; ma questo non può avvenire in nome di un’altra etica. La contrapposizione allo Stato etico dev’essere a tutto campo. Quando si difende la coscienza individuale, c’è comunque un limite da rispettare. Quando ad esempio si incita a una forma di obiezione di coscienza generalizzata, bisogna analizzare la questione con estremo rigore. Questo diventa un problema quando l’obiezione di coscienza si tramuta in un modo per impedire ad altri l’esercizio di diritti riconosciuti o dalla legge o dalla Costituzione. Che poi ci sia il diritto a disobbedire, questo è fuori discussione: ma se io disobbedisco, e la ragione può essere la più alta, ne devo poi accettare le conseguenze.