Il testamento biologico o testamento di vita, come qualcuno preferisce chiamarlo traducendo in modo maggiormente pedissequo l’espressione anglosassone living will, è un documento redatto con ponderazione analoga a quella che è doveroso utilizzare per i testamenti “tradizionali”, e dotato (o almeno si spera) di altrettanto analoga certezza legale. Il testatore affida al medico indicazioni anticipate di trattamento, nel caso infausto in cui in futuro possa perdere la capacità di “autodeterminazione”, a causa di una malattia acuta o degenerativa assolutamente invalidante, soprattutto da un punto di vista mentale, o di un incidente eccezionalmente grave. In astratto, il testamento di vita potrebbe limitarsi a contenere indicazioni, affinché il medico massimizzi gli sforzi di salvaguardia della vita di chi lo ha sottoscritto; ma si tratterebbe evidentemente di indicazioni che non farebbero altro che confermare il dovere deontologico e giuridico del medico, di operare sempre e comunque per la salvezza del paziente. Nella realtà concreta delle cose, la redazione di un testamento biologico è auspicata da e per coloro che, prefigurandosi ipotesi tragiche come quelle descritte, ritengono che in situazioni patologiche estreme sia un bene per gli uomini morire anziché continuare a vivere e preferiscono quindi essere uccisi che essere curati.



Sul testamento di vita è in atto da anni un accanito dibattito bioetico. I giuristi tendono, giustamente dal loro punto di vista, a ridurre questo dibattito in termini formali: che validità è possibile riconoscere a simili direttive anticipate, nel contesto di ordinamenti giuridici che non considerano la vita alla stregua di un bene disponibile? I medici, da parte loro, si interrogano sulla compatibilità dei testamenti di vita con i loro doveri deontologici. I bioeticisti discutono se nella sfera di insindacabile autodeterminazione del malato, quella nella quale si fa comunemente rientrare l’atto suicidario, che alcuni arrivano a qualificare come un vero e proprio “diritto dell’uomo”, si possa far rientrare altresì la pratica eutanasica, concepita come forma di “suicidio assistito”, ove appunto non solo auspicata, ma in qualche modo prescritta da un testamento biologico. Si può facilmente immaginare come la complessità della questione attivi vere e proprie logomachie, obiettivamente conturbanti data la tragicità della questione, ma spesso anche fastidiose quando si strutturano nelle forme a volte insopportabili, di eleganti dibattiti accademico-universitari.



Che la vera posta in gioco nel dibattito pubblico sul testamento biologico sia quella della legalizzazione dell’eutanasia non c’è alcun dubbio. Il successo che ha avuto l’eufemismo “suicidio assistito”potrebbe far pensare ad alcuni, che ciò di cui si discute è semplicemente come dar valore legale ad un’estrema, ma doverosa forma di rispetto nei confronti della volontà di non essere curato espressa con piena consapevolezza e in forme rigorosamente garantite dal soggetto. Ma non è così. Ne dà prova la legislazione olandese sull’eutanasia, che depenalizza questa pratica, qualificandola appunto come forma di rispetto verso la volontà del malato e subito la dilata, autorizzando il medico a sopprimere il paziente, anche in assenza di un esplicito testamento biologico. Nel presupposto che la tutela del miglior interesse del malato (in concreto: quello di essere ucciso) possa essere affidata non solo al soggetto direttamente interessato, ma anche a chi di lui si prende cura, come appunto il medico. Ci troviamo di fronte a un esempio emblematico di come sia facile, in “questioni di vita e di morte” inoltrarsi su quel “pendio scivoloso”, tante volte denunciato da alcuni bioeticisti: si parte col ritenere che occorra legalizzare situazioni estreme, problematiche tutto sommato rare (in concreto l’eutanasia praticata “su esplicita e consapevole richiesta”, pur se anticipata, del paziente), arrivando poi a estendere la legalizzazione a casi simili, solo estrinsecamente analogabili ai precedenti (l’eutanasia “senza esplicita e consapevole”richiesta). Questo “scivolamento” da una parte è concettualmente inaccettabile, ma dall’altra è obiettivamente e paradossalmente necessario poichè i fautori dell’eutanasia sanno che ben difficilmente la redazione di testamenti biologici può diventare una prassi abituale e consolidata.



Giungiamo così al cuore del nostro problema: se i fautori dell’eutanasia volessero davvero, legittimando questa pratica, rendere omaggio alla “volontà sovrana delle persone”, dovrebbero radicalmente escludere dall’uccisione “pietosa” tutti coloro che non abbiano lasciato alcuna indicazione al riguardo, che abbiano lasciato indicazioni ambigue o inattendibili, o che le abbiano rilasciate in condizioni psichiche e mentali tali da far ritenere plausibile una loro incapacità di intendere e di volere. Ma così non è. I movimenti a favore dell’eutanasia agiscono a tutto campo: insistono perché tutti i soggetti adulti e responsabili sottoscrivano i testamenti, ma aggiungono che comunque dei testamenti si può anche fare a meno, perché esisterà pur sempre qualcuno che con la sua volontà integrerà quella non espressa o espressa in modo insoddisfacente dal malato. Così questi movimenti si moltiplicano e diventano sempre più vivaci. Le numerosissime Right-to-die Societies diffuse principalmente, ma non esclusivamente, nel mondo anglosassone si sono federate e attivano continuamente manifestazioni in tutti i paesi avanzati. Tra le nuove “frontiere della libertà”quella dell’eutanasia come rivendicazione del “diritto di morire”è arrivata ad occupare ormai uno dei primi posti, almeno nell’immaginario occidentale.

Dietro tutto questo si cela un paradosso, messo perfettamente a fuoco alcuni anni fa su Le Monde in un articolo intitolato L’euthanasie est dépassé. L’autrice, Paula La Marne, sostiene una tesi inoppugnabile: non esiste più alcuna esigenza di dare una morte “pietosa” a malati incurabili, preda di sofferenze terribili e invincibili. La medicina “palliativa”, uno dei veri autentici trionfi della medicina novecentesca, svuota dal di dentro la valenza di ogni richiesta eutanasica. L’“eutanasia è sorpassata”. Il dolore delle malattie terminali può essere combattuto, fronteggiato, ridotto in termini assolutamente accettabili; può, in molti casi, essere “vinto”. La medicina palliativa non esiste per garantire la guarigione da malattie spesso incurabili; esiste per garantire una qualità di vita decisamente accettabile per il malato. Desta meraviglia, sostiene Le Monde, quanto sia scarsa la conoscenza dei progressi della palliazione, quanti pochi investimenti vengano posti in essere per comunicare ai malati questo messaggio di speranza e di fiducia. È un paradosso, continua il quotidiano, l’atteggiamento generalizzato di disinteresse che riscuote questo ramo del sapere medico in un’epoca così sensibile come la nostra, al dolore fisico generato dalle malattie; ed è uno scandalo che solo una metà delle facoltà mediche francesi abbiano attivato cattedre di medicina palliativa.

Come spiegare questo scandalo e questo paradosso? I movimenti pro-eutanasici si battono per liberare i pazienti terminali da “sofferenze intollerabili”. Ma non si battono perché la medicina palliativa – che pure della lotta alla sofferenza ha fatto la sua bandiera – si diffonda sempre di più. La realtà è che i due obiettivi sono inconciliabili. Il presupposto di ogni ricerca in tema di palliazione e di ogni pratica di medicina palliativa è strettamente ippocratico: è sempre un bene che il malato viva, è sempre un dovere per il medico aiutarlo a sopravvivere. Praticare l’eutanasia significa rendere superflua la ricerca e la pratica della palliazione. Se la medicina palliativa si è diffusa e consolidata è perché sono esistiti ed esistono medici e ricercatori che a fronte dei dolori delle malattie terminali non scelgono la via breve della soppressione “pietosa”del malato, ma la via lunga della “cura”. Una via, oltretutto “onerosa”, sia in termini strettamente monetari, che in termini di forte impegno di assistenza personale ai malati. È lecito avanzare l’ipotesi che non solo i sistemi sanitari contemporanei, ma anche il “sistema famiglia” (ridotto oggi in Occidente ai minimi termini) temanola medicina palliativa, per il forte investimento economico e umano che questa richiede?

Il dibattito su questo tema è appena agli inizi e da molti viene vistosamente rimosso, tanto è inquietante. Bisogna invece promuoverlo con forza. Dietro molte pressioni pro-eutanasiche si colloca certamente il sincero e “pietoso”desiderio di veder cessare di soffrire tanti malati terminali, ma anche una particolare visione del mondo, a suo modo forse sincera, ma certamente “non pietosa”. Quella per la quale solo la vita “sana”è da ritenere “autentica”, pienamente degna di rispetto e protezione; quella per la quale la malattia è da combattere socialmente solo quando sia “curabile”o sia comunque (come in “alcune”e solo alcune – forme di handicap) socialmente tollerabile. In questa visione del mondo quando la malattia non è curabile, va abolita, sopprimendo semplicemente la vita stessa del malato. Quello che qui entra in gioco non è solo la riformulazione “epistemologica” della stessa medicina, avviata – in questa prospettiva – a perdere la sua specificità “terapeutica”e a diventare una mera prassi formale e neutrale di manipolazione del corpo umano, ma una vera e propria riformulazione antropologica dell’idea stessa di vita. Abituati (forse da millenni) a pensare che – a differenza delle “cose”la vita non haun valore, ma “è in se stessa principio di ogni valore”, gli uomini postmoderni si trovano oggi di fronte a una sfida intellettuale e morale alla quale probabilmente non sono preparati, quella di un sottile e compiuto “nichilismo”. Una vita che non “sia valore” in sé e per sé, ma che “riceva valore” da una determinazione estrinseca della volontà, è altresì una vita che può, per una determinazione della volontà di segno opposto alla precedente, perdere “ogni valore”ed essere ridotta allo statuto ontologico della materia bruta.

Non ci troviamo più davanti a un semplice dilemma bioetico, ma a una sfida radicale che investe né più né meno il senso stesso della presenza dell’uomo nel mondo. Gli stessi tragici temi dai quali eravamo partiti, le sofferenze dei malati terminali, i testamenti biologici, appaiono in qualche modo rimpiccoliti e banalizzati. Riflettendo sulla sua morte, l’uomo arriva ben presto a scoprire che riflette non su di un evento, su di un qualcosa che pur se ineluttabilmente prima o poi gli “avviene”; riflette piuttosto sulla sua mortalità, su “ciò che egli è”. Questo può essere un pensiero così inquietante da esigere di essere esorcizzato. Che dietro tante istanze odierne favorevoli all’eutanasia non si celi forse il più grande, il più vistoso, il più fallace esorcismo che mai l’umanità abbia creato?



[1] Le Monde, 1 giugno 2002.