Era il 22 luglio 1968, quando Giovannino Guareschi fu Primo Augusto, nato il 1° maggio 1908 nella Bassa profonda a Fontanelle di Roccabianca, morì nella casetta che si era comperato a Cervia. L’ultimo sguardo che incontrò prima di rendere l’anima al suo Creatore fu quello della Madonna nel quadro sopra il letto. Un estremo momento di pace in un oceano di anni infingardi e vigliacchi.
“L’Unità”, organo ufficiale del Partito comunista italiano, diede la notizia della sua scomparsa in un corsivo di poche righe che pareva il resoconto burocratico di una purga staliniana e concludeva parlando del “malinconico tramonto dello scrittore che non era mai sorto”. Il quotidiano fondato da Antonio Gramsci dettava la linea e la quasi totalità dei giornalisti, dei cosiddetti intellettuali e dei politicanti, tutta gente che teneva famiglia, vi si adeguò volentieri. Il conto con quel rompiscatole reazionario era saldato una volta per tutte. Giusto il tempo di un anniversario, e anche lui sarebbe finito nel dimenticatoio.
Si sbagliavano. Eppure alle Roncole, due passi da Busseto, il giorno del funerale, sarebbe stato difficile pensare il contrario. Il 24 luglio, in piena estate, sembrava di essere a ottobre. Cielo basso e grigio che a tratti buttava secchiate d’acqua fredda. Pochi colleghi, nessun politico tranne il cavalier Angelo Tonna, sindaco socialista di Fontanelle. Il corteo era fatto da gente del paese, contadini, operai e i bambini della scuola a cui si era unito con discrezione il commendator Enzo Ferrari: le facce del piccolo mondo guareschiano. Come ultimo regalo, il parroco don Adolfo Rossi officiò secondo il vecchio Messale, quello di San Pio V, a cui lo scrittore era rimasto pervicacemente fedele.
La moglie Ennia, che nei racconti aveva preso il nome dolce e indifeso di Margherita, rimase in casa, sicura di non farcela ad arrivare in fondo. Dietro la bara c’erano i figli Alberto e Carlotta. Davanti la bandiera con lo stemma del re. Pareva il funerale della vecchia maestra di Mondo Piccolo. “E così il giorno dopo la signora Cristina andò al cimitero nella bara portata a spalla da Peppone, dal Brusco, dal Bigio, dal Fulmine. E tutt’e quattro avevano al collo i loro fazzoletti rossi come il fuoco, ma sulla bara c’era la bandiera della signora maestra.
“Cose che succedono là, in quel paese strampalato dove il sole picchia martellate in testa alla gente e la gente ragiona più con la stanga che con il cervello, ma dove, almeno, si rispettano i morti”.
Ma l’Italia meschina, allora come oggi, il rispetto dei morti non lo metteva affatto in conto. “Guareschi”, scrisse Baldassarre Molossi, direttore della “Gazzetta di Parma”, uno dei pochi giornalisti presenti, “ha avuto la disgrazia di morire in Italia. Se fosse morto in Francia, è certo che André Malraux, uno dei più acuti e penetranti scrittori del nostro tempo e oggi ministro degli Affari Culturali del governo francese, avrebbe trovato il tempo per andare al suo funerale. Diciamo tutto ciò con molta malinconia. L’Italia è fatta così: e qui, più che altrove, l’ingratitudine degli uomini è più grande della misericordia di Dio. Meglio così: eravamo in pochi, ma almeno eravamo i suoi amici veri”.
A conti fatti, sarebbe stato sorprendente se fosse andata in modo diverso. Negli anni che correvano senza freni verso il baratro della sovversione, Guareschi si era fatto paladino dell’ordine che ha fondamento nelle leggi stabilite una volta per sempre dal Creatore. Negli anni dei cattolici del dissenso, degli obiettori di coscienza e degli hippie psichedelici continuava a parlare di Dio, Patria e Famiglia con l’aggravante di usare la maiuscola. Negli anni che avrebbero fatto del Sessantotto l’inizio di una nuova era, osava pensare, vivere e parlare secondo la Tradizione.
In quegli anni infingardi e vigliacchi, gli incoscienti che ospitassero argomenti di questo tenore erano rimasti in pochi. Nino Nutrizio su “La Notte”, Mario Tedeschi sul “Borghese”, Vittorio Buttafava su “Oggi” e Alessandro Minardi sul “Giornale di Bergamo”. Guareschi si era visto costretto a ricorrere a loro dopo la chiusura di “Candido”, il settimanale con cui aveva condotto tutte le sue battaglie. L’editore Rizzoli aveva pensato bene di sacrificare quel giornale sull’altare del centrosinistra nel 1961.
Per il “Borghese” aveva inventato nuovi personaggi come quelli della famiglia Bianchi. Grazie loro, il padre di don Camillo sondò gli aspetti più diversi del costume, della politica, della cultura e della religione, mettendo alla berlina tutte le mode che andavano per la maggiore e correvano di gran carriera verso il baratro. Dall’inaugurazione del centrosinistra ai prodromi del consumismo.
Per “Oggi”, invece, puntò sui racconti familiari. Ai personaggi del “Corrierino”, aggiunse i nipoti che nel frattempo gli avevano dato Albertino e la Pasionaria: Michelone, la Fenomena e la Vice-Fenomena. Di fantasia aveva aggiunto Gio’, una collaboratrice familiare giovanilista e progressiva che però non arrivava a buttare completamente il cervello all’ammasso dell’emancipazione. Tanto che, se accusava Giovannino di essere un fiero avversario dell’indipendenza femminile e di volere la donnna-schiava, non si inquietava troppo a risposte come questa: “No, Gio’: vorrei semplicemente la donna-donna, la madre-madre, la nonna-nonna. Giudichi indipendente una madre che è costretta ad affidare tutta l’educazione dei figli al cinema, ai fumetti, alla televisione, alla strada, alla scuola, al doposcuola, al ‘Circolo’ e a quel famigerato ‘Gruppo’ nel quale i ragazzi cercano il calore umano non più reperibile in casa?”.
Il Giovannino degli Anni Sessanta continuava ad essere il vecchio arnese che parlava di Dio, Patria e Famiglia con tutte le maiuscole al posto giusto. Piaceva poco o niente alla cultura dominante, ma doveva certo far pensare. Fu così gli proposero di lavorare a un film documentario che rispondesse alla domanda “Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?”: titolo “La rabbia”. Nel primo tempo avrebbe risposto Pier Paolo Pasolini, nel secondo Guareschi. Nella sua parte, attraverso la voce di Ruggero Ruggeri, la stessa del Cristo dei film di don Camillo, Giovannino si sforzava di trarre l’individuo in salvo dalla massificazione. All’informe trovava un argine nella consapevolezza del bene e del male.
“L’individuo” spiegava “è il nemico numero uno degli agitati e degli agitatori. Ed è contro i diritti dell’individuo che le masse vengono gettate”.
Poi diceva che le regole eterne della coscienza sono quelle dettate una volta per sempre dalla Rivelazione cristiana. Fino a concludere:
“E’ qui, su questo pianeta, che il Figlio di Dio ha voluto nascere, soffrire e morire come Uomo.
“Qui sono il nostro passato e il nostro avvenire e qui – non sulla Luna – bisogna cercare la soluzione dei nostri problemi.
“Fratelli Morti: voi ci indicate da lassù la strada giusta che è quella del dovere e del sacrificio, e ci aiuterete a risolvere il problema più urgente. Ci aiuterete a trovare noi stessi e la fede nell’avvenire. Perché, nonostante Mao, Kruscev e gli altri guai, vale ancora la pena di viverci su questo pianeta.
“Una fiamma scalda ancora il nostro vecchio cuore di terrestri. E in noi è ancora più forte la speranza che la paura. Grazie a Dio”.
Uno così non poteva proprio piacere in un mondo che marciava perentoriamente verso sinistra. Non piaceva da vivo e ancor meno poteva piacere da morto. Perciò il 24 luglio 1968 lasciarono che fosse sepolto in splendida solitudine istituzionale, politica e culturale. Lui si portò nella bara il suo martello e la sua matita preferiti oltre alla scarpina di Carlotta e alla crosta di formaggio con i dentini di Alberto che la moglie gli aveva fatto avere quando era rinchiuso nei lager tedeschi. Non era solo.
Sulla tomba venne messa una maschera scolpita da Luigi Froni, l’amico scultore che si era messo in testa di cavare una meraviglia dai baffi e dalla faccia spigolosa dell’uomo della Bassa e fu di parola.
No, Guareschi non era solo. Era bellissimo e in splendida compagnia. Altro che formidabili quegli anni: formidabili quei baffi.



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