Si scaldano i motori in vista del Gran Prix dell’evoluzione: l’anno prossimo sarà il bicentenario della nascita di Charles Darwin e il 150esimo della pubblicazione del celebre L’origine delle specie. Tutto quindi deve essere a posto per celebrare i fasti della scienza leader del terzo millennio, la biologia; per fugare ogni dubbio sulla autenticità dei modelli del neo-darwinismo e sulla credibilità dei suoi profeti. Soprattutto per allontanare il rischio che qualcuno trovi un modo convincente per parlare di creazione e renda esplicito quello che la semplice ragionevolezza sembra indicare: cioè che il caso cieco, tanto caro ai fan di Richard Dawkins, non spiega un bel niente.
Mai come in questi ultimi mesi si assiste a un fiorire di studi su vari aspetti della teoria darwiniana classica: dopo anni di sordina, il nome di Darwin riemerge prepotentemente sulla stampa specializzata e viene immediatamente rilanciato da quella divulgativa. Cosi, ad esempio, l’autorevole (ma sarà sempre vero?) rivista Nature ha dato la parola al curatore del Museo di Paleontologia di Berkeley, Kevin Padian, per proclamare il decalogo dell’eredità concettuale di Darwin. E sul numero di aprile de Le Scienze erano ben tre gli articoli dedicati direttamente a Darwin e alla più recenti conferme di una o l’altra di quelle dieci idee.
Peccato però che la situazione della ricerca biologica sia un po’ diversa e il fronte pro-Darwin non sia poi così monolitico.
Ci ha pensato ancora Massimo Piattelli Palmarini a rompere l’incantesimo sulle pagine del Corriere della Seradi ieri, domenica 11 maggio; come peraltro aveva già fatto il 4 novembre scorso parlando della natura che “smentisce i seguaci più ortodossi” del darwinismo. Questa volta lo spunto è venuto dalla genomica, cioè da quelle ricerche indirizzate a leggere il corredo genetico dei viventi e a decifrare i messaggi codificati nelle sequenze del Dna contenuto nel nucleo delle cellule dei diversi organismi. E curiosamente la fonte è sempre Nature, anche se in coedizione con Genome Research, che ha pubblicato i risultati del sequenziamento del Dna di quello strano animale che è l’ornitorinco: la composizione del suo genoma lo indica come esito di un insieme di discendenze evolutive non solo dai mammiferi ma anche dagli uccelli e dai rettili (il suo veleno è più potente di quello di molti serpenti). Un animale così strutturato non può essere la conseguenza di tante piccole mutazioni casuali che si sono via via perfezionate per meglio adattarsi all’ambiente e garantirsi la sopravvivenza. L’ornitorinco, nella sua originalità e stranezza, è una falsificazione vivente del gradualismo darwiniano e della selezione naturale considerata come “motore dell’evoluzione”. E, come si sa, nelle scienze un evento falsificatore è più potente di tante verifiche.
Il problema ormai è da tempo nell’agenda dei biologi: che la selezione naturale faccia acqua non è una novità ed è ben chiaro che si devono esplorare nuove piste per capire cosa produce la variabilità nelle forme viventi, fornendo poi alla selezione il materiale su cui, eventualmente, operare. Bisogna esplorare i complessi sistemi biochimici e mettere nel conto tante possibili interazioni di tipo non solo strettamente biologico e genetico ma anche chimico, fisico, ambientale e, perchè no, culturale. E i ricercatori all’opera in queste direzioni sono più di quanto non si pensi o non si divulghi.
C’è da augurarsi che nei laboratori dei biologi si faccia sempre più strada questo stile pluralista e aperto a tutte le evidenze, testimoniato da Piattelli Palmarini; come pure che Nature continui a dare spazio a tutti i tipi di contributi; e che i media nostrani non traducano solo gli articoli politicamente (darwinianamente) corretti.
In tal modo forse il Gran Premio dell’evoluzione non vedrà il grande naturalista scozzese in pole position e i tifosi della selezione naturale dovranno abbassare un po’ gli striscioni. Ma ci guadagneranno la ragione e la verità.