Tempo fa, quando sono stato invitato a presentare a Cesena Si può vivere così? di don Giussani, mi sono chiesto che cosa avessi da dire io, ebreo e attaccato alla mia fede, su un libro dedicato a un approccio all’esistenza cristiana. Allora l’ho letto, per capire se avessi qualcosa da dire, e mi sono incontrato con alcuni temi che mi hanno colpito e su cui ho trovato piena consonanza.
Accennerò ad uno soltanto di essi, che però è il principale del libro, quello con cui si apre, ovvero il tema della “conoscenza per fede”, della conoscenza attraverso l’altro, che è necessariamente indiretta e deve quindi basarsi sulla fiducia, sull’affidabilità della persona che mi comunica qualcosa. Dice don Giussani che sulla conoscenza per fede si fonda sia la convivenza umana che la cultura e la storia.



Ecco allora la prima riflessione che mi è venuta alla mente e che riguarda proprio il mio rapporto di ebreo con il mondo cristiano. Mi sono chiesto: che cosa ho pensato quando ho deciso di ritenere che il ripristino di parte della preghiera per gli ebrei nella messa latina non fosse offensivo? In fondo, un tempo questa preghiera – certo, in una forma radicalmente diversa da quella attuale – era una profonda ferita per gli ebrei. E oggi qualcuno potrebbe ritenere che il suo ripristino, per quanto parziale, segnali una cattiva intenzione. Ho deciso che non era così perché ho fatto riferimento al contesto, perché ho percepito in questo contesto – in tutto quanto è stato detto e fatto negli ultimi 30 anni e in questi ultimi tempi in particolare da Benedetto XVI – una affidabilità che mi è parsa indubbia. Non c’è esame testuale delle parole che basti, è necessario qualcosa di più, e questo qualcosa ritengo di averlo trovato, come l’hanno trovato quegli ebrei che hanno accolto con tanto calore il Papa a New York: la fiducia.



La seconda riflessione riguarda un tema che mi sta molto a cuore in questi tempi, il tema dell’educazione. Dice don Giussani che se si toglie la conoscenza per mediazione (cioè attraverso un testimone) «dovete togliere tutta la cultura umana, tutta, perché tutta la cultura umana si basa sul fatto che uno incomincia da quello che ha scoperto l’altro e va avanti. Se non si potesse fare così, l’estrema esponenza della ragione, che è la cultura, non potrebbe esserci». Senza la conoscenza per testimonianza «ci si saprebbe muovere in un metro quadrato». «La cultura, la storia e la convivenza umana, si fondano su questo tipo di conoscenza che si chiama fede, conoscenza per fede, conoscenza indiretta, conoscenza di una realtà attraverso la mediazione di un testimone».

Insomma, l’educazione ha bisogno di maestri, di figure in cui riporre la fiducia, di testimoni che presentano al giovane il mondo, la storia passata, la conoscenza passata e gliela consegnano. E il giovane, l’allievo ha bisogno di un maestro, di un testimone in cui credere e cui affidarsi.
Ho pensato allora che questo insegnamento è un grande vaccino contro uno dei cavalli di Troia più insidiosi del relativismo contemporaneo: le teorie pedagogiche dell’autoapprendimento che predicano che il giovane impara da sé, in quel metro quadrato e l’insegnante è ridotto a un “facilitatore” che si limita ad accompagnarlo in quell’area ristretta, astenendosi accuratamente dal trasmettergli alcunché esterno ad essa.
Ho pensato quindi anche che chi si ispira pienamente a un siffatto insegnamento riceve gli anticorpi per resistere a quella drammatica crisi dell’educazione che sta devastando la nostra società e che ha come causa principale la perdita di fiducia nel rapporto con l’altro, lo smarrimento dell’idea che l’educazione e la cultura è soprattutto rapporto tra persone.

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