Nel 1968 avevo sedici anni. Un bambino, rispetto agli standard di adesso. Un adolescente, al più. E invece non mi ricordo così. Il ’68, e i quattro-cinque anni dopo, sono stati anni di uscita forzosa dall’inconsapevolezza, di taglio forzoso – nel mio caso – con i ripiegamenti dell’adolescenza borghese. Una formazione accelerata alla responsabilità individuale, anzitutto. Ricordo scelte individuali complicate, inattese, anche rischiose, alle quali non potevo sottrarmi, da prendere davanti a tutti, assumendosene la responsabilità, e le conseguenze. Votare alle prime assemblee della scuola a favore o contro un’occupazione, la partecipazione a un corteo: era un trauma ogni volta, si litigava, ci si interrogava, si faceva e poi ci si pentiva. Eravamo proprio all’inizio, nessuno sapeva che cosa ci sarebbe stato dopo, e che eravamo già parte di una storia travolgente. Eravamo piccoli, ma anche soli di fronte alle scelte, di fronte ai nostri compagni, ai nostri professori, ai nostri genitori. Con qualche cosa che ci diceva – questo sì, tutto intorno – che era venuto senza preavviso il momento di dire si o no, su cose spesso più grandi di noi. Non c’era niente prima di noi, non c’erano squadre da scegliere, magliette già pronte da indossare, gruppi a cui aggregarsi, questo sarebbe venuto dopo. Durante il ’68, solo un’affannosa ricerca di punti di riferimento, diversi tutti da quelli dell’infanzia e dell’adolescenza: non bastavano più i genitori, i professori, i libri di storia del ginnasio che si fermavano al risorgimento, o quelli di filosofia che si fermavano a Hegel. Un grande disordine intellettuale, questo sì. Libri scelti in base ai titoli e all’editore, senza alcuna sistematicità, letti spesso senza capire (li ho conservati tutti, e qualche volta li riprendo in mano e vedo gli appunti scritti a matita a bordo pagina, con una calligrafia diversa da oggi: e non capisco né la pagina né gli appunti).



La miscela che ne era venuta fuori, a pensarci, era ben strana. Un misto di miti risorgimentali – l’eroismo individuale, Silvio Pellico e Maroncelli –, Marcuse, di cui letteralmente non si capiva che cosa volesse, ma i più grandi dicevano che era importante (per poco), le guardie rosse, portatrici di giustizia e eguaglianza in terra, il Don Milani di Lettera a una Professoressa e dell’Obbedienza non è più una Virtù, manifesto di non violenza radicale e pacifismo, miscelato con la rivoluzione cinese, l’egualitarismo, giacobini e carbonari, soviet e comuni, qualche ascendente romanzesco, la corazzata Potemkin, Glauber Rocha ma anche qualche film western, per dire la confusione.



Facile dire che così non saremmo andati da nessuna parte, e che abbiamo perso tempo, e il ’68 ha fatto perdere tempo e occasioni al nostro paese (e ad altri, fortunatamente per noi). Ma non era un percorso rivoluzionario, non era la rivoluzione. Più semplicemente era il percorso di formazione di una parte – non grande peraltro ma rumorosa – del Paese: i giovani di allora, alle prese con un mondo intero che provava a cambiare. Cadute le mitologie, questo percorso di formazione mantiene un suo valore, per le persone che lo hanno vissuto e per la collettività che le ha espresse. E va visto con l’indulgenza degli anni che passano. Io mi guardo con indulgenza, e anche con qualche cosa di più. Perché quel percorso di formazione è stato – almeno mi pare – più ricco e meno infecondo di quello che ha costretto, qualche anno dopo, gli adolescenti del ’77 entro le gabbie di scelte ideologiche precostituite, nella ferocia delle tribù contrapposte, delle semplificazioni del prendere tutto (ideologia, visione della storia, e violenza inclusa) o lasciare il campo. E del percorso delle generazioni successive, riflusso, omologazioni, scetticismi. Noi siamo stati un’altra cosa, ed è stato un privilegio: una generazione in fondo coraggiosa, confusa e confusionaria, ma capace di scegliere individualmente e con libertà, e quindi di fermarci in tempo, cambiare idee, misurare i propri tradimenti e viltà successive ma anche rivendicare le proprie coerenze. E mantenere a sprazzi i nostri coraggi di allora, qualche confusione a volte, ma anche la nostra capacità, che viene da lì, di dire si si no no, magari sbagliando e allora ci si ripensa, ma prendendo una volta ogni tanto di petto le scelte e le decisioni e le responsabilità, e difendendole se necessario, ritrovare via via i vecchi amici che poi hanno fatto scelte diverse, e essere indulgenti gli uni con gli altri. Non è un gran che, rispetto alle idee di partenza, ma è già qualcosa.

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