A trent’anni dalla conclusione tragica del caso Moro, come vede, o rivede, la linea della fermezza che fu allora portata avanti congiuntamente da Democrazia Cristiana e Partito Comunista?

In questi anni ho molto riflettuto su questa vicenda. Debbo dire che ritengo che quella linea sia stata giusta, soprattutto in quanto inevitabile; non c’erano, almeno a mio avviso, alternative. Per due motivi: primo, perché l’alternativa della trattativa significava il riconoscimento del terrorismo come una forza non dico legittimata, ma che comunque aveva la possibilità di contrattare con lo Stato; secondo, perché non c’era nessuna garanzia che, fatta la trattativa, Moro sarebbe stato rilasciato vivo. Non c’era nessuna garanzia in questo senso, e, anzi, io penso che non l’avrebbero fatto. Guardando poi con l’occhio di oggi e col giudizio che oggi giustamente ognuno dà sul terrorismo, sulle Brigate Rosse, su quello che ha significato in quegli anni, e guardando anche a come a poco a poco fu liquidato il terrorismo dopo l’assassinio di Moro, allora affermo con chiarezza che, se si fosse aperta una breccia, una trattativa diretta, pur con tutte le cautele che si potessero pensare, la situazione sarebbe oggi peggiore. Si sarebbe sì protratto il giudizio di condanna sul terrorismo, ma anche, diciamo, un giudizio di qualità.



Lei, da siciliano, ha probabilmente visto e vissuto in maniera particolare le pesanti critiche alla linea della fermezza arrivate da un suo conterraneo come Leonardo Sciascia. Come si è posto di fronte a quel giudizio così netto?

Io sono stato molto amico di Leonardo Sciascia, ma su questo punto siamo stati divisi. La posizione di Leonardo Sciascia era sostanzialmente questa: lo Stato italiano è uno Stato che non merita nulla. Non può chiedere fermezza perché è uno Stato fatto con compromessi: uno Stato che non è uno Stato. Questa era la sua visione. Una visione pessimistica; d’altra parte lui identificava nel potere, comunque incarnato, qualcosa che bisognava sempre combattere e di cui diffidare. Quindi aveva la convinzione che uno Stato che vive di compromessi non è uno Stato, e come tale non può chiedere a nessuno una posizione di fermezza. Era una visione, a mio avviso, non accettabile, perché significava sostanzialmente dare un altro colpo allo Stato. Anch’io penso che lo Stato dall’Unità d’Italia a oggi ha fatto cento compromessi con la mafia, cento compromessi con le forze eversive. Ma farne un altro di certo non migliora la situazione. Insomma, ci vuole un atto che rompa quella concezione, e quello era un atto dovuto.
Non è vero, invece, quello che gli è stato attribuito polemicamente da Giorgio Amendola, l’opinione cioè che lo Stato e le Brigate Rosse fossero la stessa cosa. Sciascia, al contrario, pensava che erano due poteri diversi. Certamente le Brigate Rosse dovevano essere combattute: ma quello Stato non era in grado di farlo, e quindi non bisognava dargli fiducia, negandogli la possibilità di trattare. Questa era la sua via. Ed eravamo di opinione diversa. Purtroppo sappiamo benissimo che poi lo Stato, o, meglio, chi in quel momento lo esprimeva, quando fu sequestrato l’assessore Cirillo di Napoli trattò con i terroristi, con la mafia e con la camorra. In un certo senso diedero ragione a Sciascia, da questo punto di vista. Però io ritengo che in ogni caso non ci poteva essere la complicità, in questa visione dello Stato, con le forze che non hanno mai accettato questa visione stessa.



Come la vicenda Moro ha influenzato la storia successiva del Pci? Da lì in poi il Pci ha perso terreno e consensi, mentre ne ha guadagnati il Psi di Craxi, che forse fu l’unica forza politica contraria alla fermezza.

Non è tanto il modo con cui è stato gestito il caso Moro, quanto la scomparsa stessa di Moro dalla scena politica che ha colpito il Partito Comunista, e in particolare la strategia del Partito Comunista. La linea di Moro, che impropriamente fu chiamata del compromesso storico, era quella di risolvere una crisi del sistema, dopo l’esaurirsi dell’esperienza del centrosinistra, dando origine ad un allargamento dell’area democratica (come la chiamava lui). Innanzitutto, dunque, capì che si era esaurito il centrosinistra: l’ultimo fu quello del governo Moro–La Malfa, messo in crisi dai socialisti nel gennaio del 1975, con la famosa lettera di De Martino sull’Avanti. Lui da lì capì, e lo disse, che quella fase era finita. Ma cosa poteva esserci dopo quella fase? Moro riteneva inevitabile il coinvolgimento del Partito Comunista nell’area di governo. Non per fare, come è stato detto da qualcuno, il governo con il Pci, ma per creare l’alternanza. Nel senso che quella fase, quella della solidarietà nazionale, doveva servire a risolvere alcuni problemi dell’Italia (l’inflazione, il terrorismo etc.), ma doveva servire anche per consentire un’agibilità del sistema con il Partito Comunista, che poteva stare o al governo o all’opposizione. Il punto era sperare quella fase in cui il Partito Comunista era, diciamo così, fuori dalle aree di governo. Dopo la morte di Moro, non c’è dubbio che questa linea è stata spezzata, perché non c’era più la persona che nella Dc avesse l’autorità, la forza e la convinzione per portarla avanti. Dall’altro lato, io penso che anche nel Partito Comunista, con la figura di Berlinguer, è venuta a mancare questa interlocuzione, e il partito si è spostato su un’altra linea. E fu la linea che lui chiamò “dell’alternativa democratica”, quando fece nel 1980-81 la sua famosa conferenza stampa a Salerno in cui praticamente disse: «Basta rapporti con la Democrazia Cristiana e con il Partito Socialista di Craxi». E puntò tutto sul, come lo chiamava lui, “governo degli onesti”. E a mio avviso quello fu un errore. Questa la ragione del mio dissenso allora (mio, di Napolitano, di Chiaromonte, di Lama), perché non c’è dubbio che a quel punto la situazione determinò una conflittualità radicale con il Psi da un canto, e un rapporto indiretto con la sinistra democristiana. Tutta la situazione si è poi involuta fino alla crisi del sistema del 1992. Il caso Moro è stato dunque una sorta di spartiacque.



A trent’anni di distanza, nel caso Moro rimangono una serie di zone grigie e tantissime cose non spiegate, fino ad arrivare a episodi francamente incredibili (come, ad esempio, la famosa seduta spiritica, cui partecipò anche Prodi, che fece uscire il nome “Gradoli”). Qual è il suo giudizio su queste questioni ancora aperte?

Gli apparati dello Stato erano inquinati. Non è un caso che poi sia esploso il caso della P2 nei primi anni Ottanta. L’Italia in quel periodo fu attraversata da inquinamenti vari, e l’idea che questo impedì che si raggiungesse il covo di Moro resta, sebbene non ci siano prove. Tutti i comandanti dei carabinieri, della polizia, della finanza erano iscritti alla P2. C’era poi un interesse sia degli Stati Uniti, sia dell’Unione Sovietica a non avere un governo con i comunisti e la Dc nella stessa maggioranza. C’era una somma di interessi e di intrecci vari, in cui inevitabilmente nasce questa zona d’ombra.

Però queste zona d’ombra, a detta di alcuni, ci furono anche nella militanza di sinistra, nel mondo del sindacato, che forse non era del tutto distinto dal mondo delle Br (il luogo in cui si trovava Moro pare che circolasse anche in quegli ambienti, non solo negli apparati deviati dello Stato).

Non penso che questo c’entri con Moro. Vero è che nelle fabbriche si sottovalutò il fenomeno del terrorismo. Ma questa è un’altra cosa. L’affare Moro riguarda proprio gli apparati e le Br, su cui già il sindacato era più che schierato. C’erano state delle prese di posizione molto forti e molto nette. Quella fase era stata per lo più superata. La questione del sapere e dell’agire riguarda soprattutto gli apparati, un certo mondo attorno alla politica e alle strutture dello Stato.