Un uomo senza casa non può esistere. Non che non ce ne siano. Ma sono uomini offesi nella loro umanità. Un uomo senza casa è un uomo meno libero, costretto da una situazione a lui esterna a ridurre il raggio delle proprie possibilità.
La casa non è solo una tana, un rifugio, il segno della chiusura dell’uomo dentro un angusto perimetro. Al contrario, è la fucina, il laboratorio che forma l’uomo destinato a conquistare il mondo, il luogo dove hanno inizio le più grandi avventure.
Milano, nella sua splendida storia, ha sempre interpretato in modo originale ed efficace questo diritto primario, facendone un tratto fondamentale della propria personalità. Dare una casa a chi lavora, a chi ci aiuta a crescere, a chi dà il suo contributo per rendere più grande e bella la nostra città è sempre stato un tratto qualificante della cultura milanese: quella cultura tutta fondata sulla concretezza e sull’operatività e, al tempo stesso, sensibile e attenta come poche altre ai bisogni di tutti.
Per questo, a differenza di altre città, Milano si caratterizza, nella sua storia, come città dell’accoglienza, città adottiva per eccellenza: come dimostra la lunga fila di padri fondatori della città (a cominciare da Sant’Ambrogio, Leonardo e San Carlo) la cui origine non è milanese.
Il cittadino milanese ha sempre saputo queste cose. Oggi, però, sembra saperle meno di un tempo. Una vulgata tendenziosa si è impadronita dell’immagine che ci facciamo di questa città, che a giudicare dai giornali e dall’opinione corrente di molti sembra essersi trasformata in una città avida, diffidente, paurosa (“la sicurezza!, la sicurezza!”), a volte xenofoba.
Se questa è l’immagine che viene diffusa, noi sappiamo che essa non corrisponde al vero. Il sociologo Aldo Bonomi dice, giustamente, che la sofferenza di Milano sta nella difficoltà che i diversi “pezzi” di cui è fatta faticano a comunicare tra loro. La conseguenza è una città piena di esempi positivi, di opere sociali, di opere di carità, una città piena di generosità che è la vera immagine di Milano ma che resta per così dire umiliata da chi vuole che l’immagine sia un’altra.
In questi anni ho conosciuto da vicino l’opera di diversi costruttori, e ho capito quanto è facile uniformarsi al luogo comune che li vede come cinici e avidi e privi di riguardo per la città e i cittadini.
C’è stato e c’è, senza dubbio, chi ancora considera Milano come una piazza per il mercato immobiliare, ma c’è anche chi (e non sono pochi) si muove nella direzione opposta. Per capirlo è necessario andare a vedere, perché quello che ci piove addosso dal mondo dell’informazione è sempre altro.
Da anni dico, e con me lo dicono adesso in molti, che è necessario ricostruire il racconto di questa città. Bisogna far parlare l’esperienza, il lavoro, il coraggio, le situazioni di sofferenza. Bisogna far parlare i muri, le case che crescono, le vie che si rinnovano.
E raccontare significa stabilire nessi attivi, mostrare le implicazioni, i contatti, far diventare cultura quello che facciamo – dove per “cultura” non intendo innanzitutto un modo particolare di vedere le cose, ma un modo di mettere in relazione quello che facciamo con i problemi e le esigenze di tutti.
Questo è davvero necessario, altrimenti prevale la paura, e con la paura il potere di chi ha tutto l’interesse a mantenerla viva.



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