«Tutto ciò che gli italiani scrivono in versi è detto “siciliano”». Così Dante, nel De vulgari eloquentia, sancisce (con geniale intuizione critica) l’assoluta primogenitura per tutta la nostra tradizione lirica della cosiddetta “scuola siciliana”, quella cioè dei poeti che scrissero alla corte “meridionale” dell’Imperatore Federico II nella prima metà del XIII secolo.
Ma i primi grandi lirici italiani devono attendere gli inizi del XXI secolo per vedere un’edizione completa delle loro opere (quelle a noi pervenute), condotta con perizia filologica, in tre volumi dei bei cofanetti dei Meridiani Mondadori, per oltre 3600 pagine complessive. Un lavoro promosso dal Centro di studi filologici e linguistici, che ha visto all’opera filologi da varie parti di Italia i quali si sono spesso avvalsi dell’aiuto di equipes di studiosi. Il primo volume, dedicato esclusivamente a Giacomo da Lentini, è stato curato da Roberto Antonelli dell’Università di Roma; il secondo, in cui sono raccolti tutti i poeti della corte di Federico tranne il “Notaro” da Lentini, è stato firmato da Costanzo di Girolamo dell’Università di Napoli; il terzo che tratta dei poeti siculo-toscani da Rosario Coluccia dell’Università di Lecce.
Ora sarà dunque più agevole ripercorrere, grazie a questa raccolta completa di 337 testi, l’evoluzione della poetica italiana ai suoi albori. Sebbene, a differenza di Dante, noi ora datiamo più in su l’inizio della nostra Letteratura, indicandone l’atto di nascita nel “Cantico delle creature” di san Francesco (1224 circa), resta tuttavia il fatto che i lirici siciliani costituiscono la prima scuola poetica italiana.
Ma per capire perché proprio in Sicilia, perché negli anni tra il 1230 e il ’50, e che c’entri Federico II con tutto ciò, bisogna fare un passo indietro. Siamo in Francia, più esattamente in Provenza, agli inizi del XII secolo. I trovatori in lingua d’oc allietano le corti scrivendo raffinate canzoni d’amore, politiche, morali con un linguaggio e un metro raffinato e una base musicale. Danno forma letteraria agli ideali dell’amor cortese che risuoneranno di lì a pochi anni un po’ in tutta Europa. Federico II, di origine sveva ma re di Sicilia e poi imperatore, reca con sé alcuni di questi trovatori provenzali: grazie a queste e altre influenze fiorì la famosa scuola. Ma a cantare alla corte di Federico non sono più giullari di umili condizioni, bensì i suoi funzionari, spesso notai (come Giacomo da Lentini), o consiglieri (come Pier delle Vigne). Tema esclusivo dei siciliani è l’amore cortese, sulla base dei contenuti e topoi provenzali: il paragone del rapporto tra il poeta e la sua amata con i legami tra il signore e il suo vassallo; il tema dell’amore di lontano; la richiesta di una ricompensa da parte dell’amata per la dedizione assoluta del poeta nei suoi confronti. Rimangono in disparte le tematiche morali e politiche, che verranno però riprese più tardi dai “Siculo-toscani”, quei poeti cioè che operano nei comuni della Toscana riprendendo il modello siciliano con alcuni adattamenti.
Non si tratta di una ripresa, da parte della Scuola siciliana, di schemi prefissati e svuotati del loro contenuto, anche se bisogna riconoscere che l’amore cantato non è frutto di esperienze vissute: si può rintracciare in questi componimenti il tentativo di approfondire i temi amorosi, elaborati anche in modo personale. E a conferma di ciò basta vedere l’evoluzione della poetica che avverrà in toscana, dove dai modi aristocratici della corte imperiale si passerà al municipalismo delle contese comunali: la canzone morale e politica, spesso spinta all’invettiva, prenderà sempre più spazio a scapito dell’amore cortese.
Rilevante sarà anche l’impegno di questi poeti, che scrivevano non per mestiere ma per diletto, nello sperimentare nuove forme metriche: fu proprio Giacomo da Lentini a inventare il sonetto, forma metrica decisiva per la letteratura italiana e che grazie a Petrarca farà il giro dell’Europa.