La nostra attualità sembra riproporre in modo ostinato, a chi lo sa vedere, il rapporto tra le leggi e i principi ai quali i giudizi operati dagli uomini secondo le leggi dovrebbero conformarsi. Esiste un rapporto tra il diritto e la morale? Il corpus delle leggi fondamentali di uno Stato – la Costituzione – è un complesso autoreferenziale di leggi, e quindi un meccanismo formale in se compiuto che produce valori, oppure esso stesso nasce come traduzione di un insieme di valori che precedono l’elaborazione giuridica perché fanno parte dell’esperienza storica di una nazione? La natura pattizia e positiva esaurisce il senso della legge? Le costituzioni vanno comprese solamente in un’ottica proceduralista? Pubblichiamo una conversazione tra l’avvocato Stefano Nicastro, del direttivo nazionale della Libera Associazione Forense, e Andrea Simoncini, docente di Diritto costituzionale all’Università di Firenze, nella quale si trovano molte domande, e dove si propongono anche molte risposte, sul senso della legge, del diritto e della giustizia. L’intervista prende spunto dai temi affrontati nel recente libro La lotta tra diritto e giustizia, di Francesco Ventorino, Pietro Barcellona e Andrea Simoncini.
Stefano Nicastro – Lei, nel primo capitolo del suo intervento, si pone la domanda su quale tipo di rapporto intercorre tra il diritto e la morale. Tale “classico” tema trova oggi ampio spazio, anche a seguito della pubblicazione nel nostro paese di diversi saggi di Bockenforde con la riproposizione della sua tesi: Lo Stato liberale, secolarizzato vive di presupposti normativi che non può garantire. Tale assunto è stato, ed è tuttora, alla base di un dialogo che da diversi anni (ed in misura diversa) intercorre tra il noto filosofo tedesco Habermas ed il Cardinale Joseph Ratzinger che, anche in suoi ultimi interventi nella veste di Pontefice (Ratisbona, discorso all’ONU) ne ha ripercorsi alcuni passaggi.
Mi pare di comprendere che secondo Lei il limite della concezione proceduralista di Habermas consiste nel fatto che non sia possibile ritenere che la Costituzione di uno Stato, fondandosi in via autoreferenziale ed esclusiva su procedure giuridiche, produca autonomamente valori etico morali. Tuttavia, Habermas nel suo ultimo libro Tra scienza e fede scrive che lo Stato “non può scoraggiare i credenti e le comunità religiose dall’esprimersi come tali anche politicamente, perché non sa se altrimenti la società secolare non si privi di importanti risorse di fondazione di senso”.
Non le sembra una “concessione” non da poco, per chi pone quale propria base teoretica una concezione proceduralista della democrazia? E, al riguardo, per lei, sotto questo profilo, è possibile recuperare quel concetto di Grundnorm posta da Kelsen come regola pregiuridica, quale comando metagiuridico che impone il vincolo (morale?) dell’osservanza della norma giuridica come comando “giusto” da seguire ed osservare?
Andrea Simoncini – Come cerco di precisare in più parti del mio intervento nel volume, non sono né un filosofo né un teologo; sono un giurista “positivo”, intendendo con questo termine il fatto che per me il diritto è innanzitutto un “fenomeno”, qualcosa che esiste (appunto “positum”), all’interno delle società. Il primo compito che avverto è, dunque, conoscerlo – o, meglio, cercare di conoscerlo – nel modo più completo e razionale possibile. Mi sia consentita una breve digressione su questo punto. A me pare che oggi i giuristi si trovino dinanzi ad un bivio: da un lato c’è il “salvagente della forma” – è l’icastica immagine di Irti. Il diritto è soltanto una regolazione tecnica che deve rispettare alcuni requisiti di validità formale; i giuristi sono quindi, al fondo, dei tecnocrati, impegnati a scovare nelle pieghe della regole le scappatoie. Dall’altro, sempre più frequente, c’è la fuga nella “filosofia”. Si preferisce discutere dei massimi sistemi e quasi sempre – diremmo – de jure condendo. In questa condizione è francamente molto difficile per il diritto mantenere il suo statuto di scienza giuridica senza decadere a tecnica ovvero sublimarsi in filosofia.
Comunque, è da questo particolare punto d’osservazione che nascono le mie considerazioni sul proceduralismo costituzionale di Habermas. Anch’io ritengo che il filosofo tedesco sia senza dubbio la punta più avanzata ed acuta della riflessione critica sull’involuzione cui un certo relativismo sta conducendo i sistemi politico-giuridici contemporanei; il punto, però, è che ritenere le Costituzioni come sistemi procedurali attraverso cui si prendono le decisioni pubbliche e non documenti normativi in cui si consacrano sostanzialmente alcuni valori, sottraendoli alle decisioni maggioritarie, prima che essere giusto o sbagliato, non corrisponde a quello che le costituzioni euroee post-totalitarie sono. Le costituzioni nel senso contemporaneo non sono meccanismi ideati dai filosofi – un po’ come la Costituzione ateniese di cui discutevano Aristotele o Platone – ma sono innanzitutto documenti storici, dotati di uno specifico carattere giuridico che le distingue dagli altri atti del potere pubblico.
Queste Costituzioni sono nate – sarà bene ricordarlo – dopo la “shoah” o, per usare l’immagine di Capograssi, “dopo la catastrofe” rappresentata dai totalitarismi e dalla seconda guerra mondiale; la scelta, quindi, è stata chiara: identificare, scegliere, preferire alcuni valori e difenderli dalle maggioranze ordinarie, tanto che per garantire questa “preminenza” sono stati inventati giudici ad hoc (le corti costituzionali).
Tornando, quindi, all’esempio, anch’io ritengo che lo Stato non possa scoraggiare i credenti dalla partecipazione al dibattito nella “sfera pubblica”, e non solo perché questo contrasterebbe con l’idea di “ragione pubblica” elaborata da Rawls o perché tale contributo è decisivo per offrire quel fondamento “assiologico” senza del quale la democrazia non vive (Habermas o Bockenfoerde), ma, mi permetto di dire, anche perché la libertà religiosa – intesa non solo quale facoltà di culto, ma come diritto di partecipazione attiva delle persone credenti alla vita democratica ed al dibattito politico – è il contenuto proprio di una serie di diritti costituzionali, cioè di libertà fondamentali garantite dalla gran parte dei testi costituzionali europei, a partire dal riconoscimento – fondativo ed originario – del fatto che la persona esiste nelle sue relazioni sociali prima dello Stato e del suo potere.
Mi pare, invece, che assistiamo sempre più a questa singolare tendenza ad enfatizzare le costituzioni – in quanto procedure – come testi di morale civile e, parallelamente, a svalutarne il senso – sostanziale – di leggi, cioè di atti normativi.
Nicastro – Mi ha molto colpito la Sua “difesa” del riconoscimento che alla base di una Costituzione vi sia una certa e definita concezione filosofico-morale. Mi pare che questo modo di ragionare si ponga direttamente contro il pensiero attualmente dominante, anche nel mondo giuridico, per cui ciò deve essere negato, pena la mancata possibilità della Carta costituzionale di dirimere i conflitti, in un epoca, come la nostra, dove vige il cosiddetto multi pluralismo. In sintesi la Costituzione dovrebbe garantire, usando in prestito dal gergo calcistico un termine entrato nel nostro linguaggio usuale, il fairplay tra i vari soggetti, mediante l’uso di procedure che peraltro dovrebbero differire da materia a materia.
Vorrei portare alla Sua attenzione un passaggio, che mi sembra evocativo ed esemplificativo in punto, estratto dal libro La virtù del dubbio, di Gustavo Zagrebelsky: “Il diritto naturale, in tutte le sue forme, non esiste più. Si intenda: non esiste più come orizzonte normativo comune, che possa reggere le concezioni giuridiche della società nel suo insieme. Chiunque, naturalmente, può nutrire la certezza o la speranza di trovare nella rivelazione divina o nella comune ragione umana ben orientata o in quella che gli appare l’evidenza della natura delle cose, il criterio della sua azione giusta. Ma la pretesa di generalizzare il diritto naturale a tutta la società, nel tempo attuale del pluralismo e, ancor più, in quello del cosiddetto multiculturalismo, significa non promuovere la convivenza sociale ma scuoterla dalle fondamenta. Da questo punto di vista, l’appello al diritto naturale, è un grido di guerra civile, un appello alla divisione, alla discriminazione. D’altra parte, la tradizione, a differenza di quello che accadeva un tempo, è diventata una parola vuota”. Cosa ne pensa?
Simoncini – Innanzitutto facciamo subito fuori un punto: la questione non è nominalistica. Non ho alcuna passione ossessiva per l’espressione “diritto naturale”. Mi limito ad osservare che oggi, nell’Europa che l’ha inventata, questa espressione produce reazioni “allergiche” del genere di quella espressa dal prof. Zagrebelsky nel brano citato. La stessa cosa non accade nell’“empirica” cultura anglosassone, se è vero che in tale area culturale il dibattito sulla Natural Law e sui Natural Rights è oggi al centro di una vivace e vitale discussione i cui protagonisti non sono soltanto credenti cattolici o “teocon” guerrafondai ed intolleranti, come qualcuno sembra ritenere, ma anche intellettuali laici e di estrazione liberale (penso alle riflessioni sulla Structure of Liberty di Randy Barnett o alle posizioni di Michael Moore sul Good without God).
Il punto non è, quindi, l’espressione “diritto naturale”, ma quello che c’è sotto. E quello che c’è sotto mi pare sia descritto molto bene dallo stesso professor Zagrebelsky, in un libro di qualche anno precedente all’intervista di Preterossi del 2007; un volumetto significativamente intitolato La domanda di giustizia, in cui dialogando con il cardinal Carlo Maria Martini, il professore torinese affermava: “Noi avvertiamo profondamente che la fame e la sete di giustizia di cui, per tutti e non solo per i credenti in Cristo, parla il Sermone del Monte (Mt. 5,6), non sono solo parole vuote né tantomeno un incitamento alla divisione in nome di ideologie politiche. Spenta del tutto la giustizia o, meglio, la speranza di giustizia – e non solo l’egoistica speranza di giustizia per se stessi – l’esistenza stessa è scossa dalle sue fondamenta. Remota iustitia, la depressione, lo sconvolgimento mentale e il suicidio sono le concretissime conseguenze che attendono gli spiriti sensibili di fronte all’impotenza e di fronte al sentimento di giustizia irrimediabilmente spezzato. (…) La speranza di giustizia è una condizione di esistenza… La giustizia è remota non solo quando ogni libertà di perseguirla è spenta ma anche quando, al contrario, la libertà (come assenza di costrizione) è assicurata ma non si sa a cosa applicarla, a cosa finalizzarla. (…) Ma allora? Siamo dunque portati dalla nostra stessa natura a desiderare ciò che non esiste? Non sarebbe anche questa una condanna terribile, una grande ingiustizia, la mancanza di una condizione per esistere? (…)”
E di qui la conclusione cui perviene questo, a mio avviso, condivisibilissimo ragionamento: “Forse l’origine del fallimento è nel carattere speculativo dei tentativi di comprendere la giustizia”; per afferrarne il cuore è preferibile muovere dalla propria esperienza, prosegue Zagrebelsky. “Forse possiamo dire che la giustizia è un’esigenza che postula un’esperienza personale: l’esperienza, per l’appunto della giustizia o, meglio della aspirazione alla giustizia che nasce dall’esperienza dell’ingiustizia e dal dolore che ne deriva. Se non disponiamo di una formula della giustizia che metta tutti d’accordo, molto più facile è convenire – a meno che non si abbia a che fare con delle coscienze deviate – nel percepire l’ingiustizia insita nello sfruttamento, nella reificazione degli esseri umani da parte di altri esseri umani. Ed è più facile non vederla o rimuoverla come cosa remota piuttosto che rimanere insensibili, una volta che si sia entrati con essa in un contatto immediato”.
Allo Zagrebelsky del 2007 preferisco decisamente quello del 2003! Ripeto, possiamo chiamare questo quid, “aspirazione alla giustizia”, come preferisce il costituzionalista torinese, ovvero “esperienza elementare universale” come di recente ha proposto Marta Cartabia o “forme basilari di bene umano” per usare l’immagine di John Finnis. Quello che mi pare rilevante è il dato che senza questa aspirazione cui siamo portati dalla “nostra stessa natura” (cito Zagrebelsky), manca una condizione fondamentale dell’esistenza degli uomini. Un sistema giuridico che intendesse svilupparsi negando questa “condizione di esistenza” non sarebbe avvertito come “ragionevole” ed “umano”, prima che “valido” o “efficace”.
Il suggerimento di prendere le mosse dalla propria esperienza umana del bisogno di giustizia mi pare una strada particolarmente feconda “sulla quale è più facile convenire – a meno che non si abbia a che fare con delle coscienze deviate” (sono ancora parole del professore).
Nicastro – Ultima domanda. Risulta interessante la notazione che svolge in merito a quello che definisce come l’ultimo pregiudizio: ossia la tendenza dominante di trasformare sempre di più il diritto costituzionale in un diritto giurisprudenziale. Sottopongo alla sua osservazione alcuni passi di un libro di Antoine Garapon, I custodi dei diritti.
A detta dell’autore, di fronte al fallimento dei sistemi democratici moderni, basati sulla cultura relativista e dell’indifferenza dei singoli valori, ci si riferisce al giudice quale unica autorità riconosciuta, investendolo di poteri sino a poco tempo fa impensabili. Questo, per Garapon, è il “paradosso della società democratica che riversa sulla giustizia le sue domande di senso non soddisfatte. Forse ci si rivolge alla giustizia come ultima risorsa, perché ci si aspetta da lei un ruolo morale, ruolo che, in tutta evidenza, non può svolgere. L’attuale esaltazione per la giustizia, che si spiega soprattutto con la scomparsa di istanze che un tempo svolgevano una funzione morale, evidenzia più una mancanza che una domanda positiva nuova”. Il diritto diviene così l’ultima morale comune in una società che non ha più morale.
Per il pensatore francese, dunque, questo continuo ed insistito ricorso al diritto svela una conseguenza paradossale: in una società basata oramai sull’individualismo autorefenziale, con il conseguente mancato riconoscimento di altre autorità diverse dal foro della propria coscienza, ci si rimette sempre più al controllo di un soggetto terzo, cioè il giudice.
Per l’autore quindi la giustizia “concentra tutto il tragico della democrazia moderna mostrando al tempo stesso la sua incapacità a fare a meno dell’autorità e la sua incapacità di darle un fondamento e un regime istituzionale. Più di ogni altra la società democratica richiede una trascendenza ma, allo stesso tempo, la vieta. È il paradosso della giustizia che deve esercitare una funzione terza in una società di uguali, occupare un posto esterno in una società senza distanze. Il giudice non deve sostituirsi al terzo assoluto, di cui la democrazia continua a portare il lutto ”. Le sembra una descrizione realistica della nostra società?
Simoncini – Condivido, ma, debbo dire, con un certo disagio, il de profundis di Garapon. Queste analisi “ultraliberali” delle democrazie contemporanee e della loro deriva “giuristocratica” alla Hirschl, finiscono per contrapporre in maniera irreversibile autorità e libertà e, quindi, esaltando gli aspetti paradossali di questo rapporto, finiscono sempre in descrizioni un po’ luttuose o tragiche.
Anch’io, ad esempio, nel libro con Ventorino e Barcellona metto in guardia dalla deriva verso un’enfasi sproporzionata del ruolo della magistratura, ma non sono affatto convinto che oggi nella percezione diffusa e comune – della “gente normale”, per così dire – il sistema giudiziario italiano, ad esempio, sia davvero avvertito come la fonte di speranza o i giudici siano considerati come i nuovi portatori di una morale collettiva. Sarebbe come dire che se a uno capita un problema grave nella vita o nella propria famiglia va a parlarne con un vigile o un prefetto. Penso, invece, che fin quando una certa tradizione popolare non sarà del tutto sradicata o anestetizzata, sarà ancora possibile sentir dire, dinanzi alla decisione di un giudice o ad una nuova legge: “ma è ingiusta!”.
Questa libertà di giudizio dinanzi ai poteri pubblici, questa ribellione della “aspirazione di giustizia” che c’è in ognuno di noi e di cui parla Zagrebelsky, mi pare sia ancora possibile nel livello sociale popolare o in quello giovanile. Foss’anche limitata solo al dolore per l’ingiustizia subita o alla sofferente accusa della propria incapacità, fin quando ci sarà una scintilla d’umano essa si esprimerà come l’insofferenza per gli schemi morali imposti da qualsiasi forma di potere esterno alla persona.
Del tutto diverso è il quadro delle élites tra le quali, in primis, il ceto politico. È qui, invece, che oggi assistiamo ad una battaglia furibonda per la riallocazione del potere e su questo punto l’analisi di Garapon mi pare sia molto più pertinente.
Secondo me la democrazia per vivere ha bisogno, più che di trascendenza, di politica e di dialogo. Cioè ha bisogno di soggetti che interpretino e rappresentino i bisogni della polis – da cui l’attività politica. C’è bisogno di soggetti portatori di bene comune; soggetti che per realizzare tali beni abbiamo come legge dinamica il dialogo, cioè la proposizione di tali ideali come spazi di libertà per tutti e quindi stimino la diversità come arricchimento della propria identità.
Questi fattori, purtroppo, mancano da troppo tempo sulla scena pubblica e l’aspetto “servente” del potere politico rispetto a questi bisogni e questi beni è stato dimenticato sostituendo ad esso una idea del potere politico come bene in sé.
Così nasce la zuffa furiosa tra le élites politiche cui oggi assistiamo e alla quale temo che non vi sia una soluzione “endo-giuridica”. La speranza, secondo me, non solo non viene dai giudici, soggettivamente intesi, ma neppure dal diritto, nella sua realtà oggettiva; la speranza deriva da ciò che è in grado di rimettere in moto il cuore e la ragione dell’uomo e, dunque, la sua responsabilità.