Il 9 agosto la Chiesa cattolica ha fatto memoria di Santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, vergine e martire, compatrona d’Europa. Di origine ebraica, la Stein si fece battezzare il 1° gennaio 1922 ed entrò nel monastero delle Carmelitane di Colonia nel 1933. Costretta a rifugiarsi in Olanda a causa delle persecuzione anti-ebraiche che infiammano la Germania nel 1938, venne arrestata dalla Gestapo nel convento di Echt il 2 agosto 1942. Si tratta di una ritorsione nazista nei confronti della lettera di protesta contro i pogrom e la deportazione degli ebrei scritta dai vescovi dei Paesi Bassi. (Questo episodio dovrebbe far riflettere tutti coloro che denunciano i “silenzi” di Pio XII durante la Shoah). Il 9 agosto 1942 muore nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
Ricordare la vita della Stein oggi non è solo doveroso da un punto di vista umano e religioso, ma è anche profondamente interessante dal punto di vista culturale. Ella fu infatti un’intellettuale di grande valore. Allieva e collaboratrice di Edmund Husserl – fondatore di quella che è probabilmente la più importante scuola filosofica del Novecento, la fenomenologia – vide sfumare i propri sogni di carriera accademica a causa di pregiudizi maschilisti e anti-giudaici. Discriminata in quanto donna ed ebrea, insomma. Inoltre non si può certo dire che la sua conversione al cattolicesimo e la sua vocazione religiosa abbiano giocato in seguito a favore del riconoscimento del valore filosofico della sua ricerca. Una figura sempre controversa e politicamente scorretta, in vita e dopo.
Qual è dunque il grande interesse che suscita la biografia e l’opera della Stein? Ci aiuta a capirlo un recente volume di Alasdair MacIntyre: Edith Stein: A Philosophical Prologue, 1913-1922 (Lanham 2006). Il nostro è un tempo in cui la forma della vita di un filosofo professionale è generalmente caratterizzata da una separazione tra vita sociale quotidiana e attività intellettuale che di fatto depotenzia la critica filosofica e produce conformismo sociale. La Stein invece ci fornisce un esempio di comunicazione biunivoca tra vita e filosofia al punto che è impossibile separare la sua conversione religiosa dagli sviluppi del suo lavoro intellettuale. Ella impara da Santa Teresa d’Avila che la vita della preghiera è una vita di apprendimento e richiede una disciplina allo scopo non di distoglierci dalla realtà mondana, bensì di farci cogliere ciò che è dato nell’esperienza. Mutatis mutandis questo era anche l’obiettivo della fenomenologia, il cui motto recita Alle cose stesse!.
Un altro aspetto che rende la Stein interessante ai nostri occhi è la sua insistenza sul carattere cooperativo della ricerca filosofica. Ciò deriva dalla natura stessa dell’approccio fenomenologico, teso a descrivere il darsi delle cose a partire da una descrizione rigorosa dell’esperienza vissuta, fatta di percezioni, emozioni e volizioni. La mia esperienza, a differenza di ciò che afferma la tradizione filosofica moderna, non è mai meramente privata, in quanto gli oggetti percepiti si costituiscono sempre sullo sfondo della consapevolezza di altre coscienze analoghe alla mia. Non c’è bisogno di costruire ponti verso “gli altri”: l’esperienza umana è radicalmente intersoggettiva.
Tutto ciò ha rilevanti conseguenze sul piano pratico. L’esperienza di un individuo infatti può avere la coerenza e l’unitarietà che possiede solo grazie alla sua partecipazione a un particolare insieme di significati comuni. Emerge quindi come centrale la categoria di comunità, slegata però da quell’accezione etnica e linguistica al cui interno viene generalmente ingabbiata dall’odierno multiculturalismo. È l’anima stessa dell’uomo che ha una struttura comunitaria e ogni tipo di conversione, anche quella filosofica, implica la scelta di una comunità cui appartenere. In altre parole, per la Stein l’appartenenza è un presupposto epistemologico della ricerca intellettuale. È difficile trovare una tesi più politicamente scorretta ma anche così interessante nel panorama culturale contemporaneo.