Antonio Socci, quest’anno il tema del Meeting di Rimini, “O protagonisti o nessuno”, spinge innanzitutto a una riflessione sul vero significato della parola “protagonista”, andando oltre la concezione che il mondo ha di questo termine. Cosa significa secondo lei essere protagonisti?
L’apparenza dei fatti del mondo ci porterebbe a ritenere che i protagonisti della storia siano i potenti: una volta i faraoni o gli imperatori, oggi i governi e la grande finanza. Ma duemila anni fa è entrato nel mondo un fattore insolito e sorprendente, che fin dall’inizio ha capovolto questo sguardo sulle cose umane. Colei da cui è iniziata questa storia, Maria, nel suo inno di gioia quando incontra la cugina Elisabetta annuncia, anche come profezia sul futuro, che Colui che ha in mano veramente la storia “abbatte i potenti dai troni e innalza gli umili”. È un capovolgimento totale; e parrebbe, diciamolo pure, una cosa campata per aria. Ma riflettendo bene, quando effettivamente si sono visti i potenti abbattuti e gli umili invece glorificati? Proprio da duemila anni a questa parte. Quello che è accaduto nella storia da allora testimonia la verità di quella profezia di Maria.
Eppure sembra di poter dire che la storia abbiano continuato a farla i potenti: in che senso questo stravolgimento si è attuato?
Io ricordo di aver visto qualche anno fa quella terribile fortezza che l’imperatore romano Diocleziano fece costruire a Spalato all’inizio del IV secolo. Egli era il grande imperatore, era il potere, era colui che faceva la storia; e al contrario i cristiani sembravano i perdenti, i poveri perseguitati. Nell’arco di pochissimi anni di quel potere e di quell’imperatore non rimase traccia, mentre il cristianesimo andava dilagando, nonostante le persecuzioni: è infatti successivo di soli dieci anni l’editto di Milano. Questo esempio, che dà l’idea di cosa sia il potere umano, è ben spiegato in una pagina di Pascal, in cui il filosofo francese parla di Cromwell, uomo che nel suo momento di massimo potere aveva in mano non solo l’Inghilterra, ma anche l’Europa e, dice Pascal, stava facendo un solo boccone anche di Roma. Se non che “una minuscola renella andò a porsi nella sua uretra” e di Cromwell non si sentì più niente. Questo illustra la vera natura di quelli che noi definiamo potenti, che di fronte all’unico vero potente, che è Dio, hanno la consistenza della nebbia del mattino.
Don Luigi Giussani parlò del «mendicante» come vero protagonista della storia («Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo»): che valore e significato ha secondo lei questa intuizione?
Dio costruisce la sua storia nel mondo attraverso presenze che apparentemente sembrano fragili e deboli. La frase pronunciata da don Giussani nel 1998 in piazza san Pietro è un’affermazione straordinaria, che lancia una provocazione analoga a quella del Magnificat. Da una parte parla del cuore umano che mendica Cristo, ed è un po’ come quello che San Paolo annunciava all’Areopago: tutti i popoli umani, tutti gli individui, inconsciamente, si agitano, si muovono e muovono la storia alla ricerca di questo ignoto che dà senso alle loro esistenze e che dà tregua alle loro inquietudini. Dall’altra parte ci ricorda la presenza del Signore della storia, che entra nel mondo – come dice Péguy – non con i suoi abiti regali e principeschi, ma quasi come un mendicante, un anonimo giovane predicatore della Galilea, che cerca i cuori umani, e che nell’apparente debolezza e sconfitta ha capovolto la storia e ha capovolto il mondo.
Questo capovolgimento della storia è visibile anche oggi, in un mondo così profondamente scristianizzato?
Sì, perché non abbiamo visto solo l’impero romano crollare secoli fa; anche nella nostra generazione abbiamo visto crollare, proprio sotto i nostri occhi, imperi planetari che nessuno di noi mai avrebbe potuto immaginare che potessero finire. E questo è accaduto in una notte, senza un solo vetro rotto. Coloro che in quegli imperi erano stati fino a pochi giorni prima silenziosi e sofferenti perseguitati sono stati innalzati. Questo è quello che la storia umana da duemila anni a questa parte testimonia, anche oggi.
Un argomento molto trattato quest’anno dai giornali è il quarantennale del Sessantotto, e anche al Meeting se ne parlerà: si può dire che anche quello fu un momento in cui un’intera generazione volle diventare protagonista, seppure in maniera confusa e violenta?
Il Sessantotto è un episodio interessante, perché dice da una parte l’inquietudine dell’uomo che è abitato da un’ansia che non ha mai tregua e che non è mai appagata; dall’altra dice la fragilità di questa inquietudine, che immediatamente può diventare ideologia. Quell’inquietudine di per sé, proprio perché si sente insoddisfatta, cerca una risposta grande, infinita. Ma la natura umana è ferita e gravata da qualcosa che la induce a rifugiarsi immediatamente in un proprio potere. Allora è facile trasformare questa inquietudine in un progetto proprio, in un’ideologia. Il Sessantotto è proprio questo: una domanda, un’ansia bella e sana, che in qualche modo si sente insoddisfatta dentro la mentalità formalistica e autoritaria del suo tempo, ma che immediatamente diventa un’ideologia, più autoritaria e più ipocrita di quella che combatteva, e anche più violenta.
Che cosa rimane dunque oggi del Sessantotto?
Quello che colpisce è proprio il fatto che di questo grande sommovimento giovanile non è rimasto niente, se non storie individuali che sono finite o nella violenza del terrorismo in alcuni casi, o nel potere in molti casi (oggi tanta parte del potere mediatico e politico è in mano ad ex-sessantottini), o in normali esistenze borghesi, cioè esattamente quelle che prima si rifiutavano. È molto interessante il fatto che nessuno faccia un bilancio serio e vero di quel sommovimento generazionale che sembrava dover sconvolgere il mondo. Un’altra cosa che colpisce è che l’unico movimento giovanile nato in quel periodo e rimasto ancor oggi è il movimento di Comunione e Liberazione: una realtà molto anomala, odiata e combattuta. Un movimento cattolico, che ha continuato a mantenere tutt’oggi la sua caratteristica di essere un movimento di giovani, oltre che essere cresciuto ed essere diventato anche un movimento di popolo. Questa sì sarebbe una cosa interessante su cui riflettere, perché anche il fatto che sia rimasta come realtà comunitaria mantiene vivo quel desiderio e quell’ansia inappagata, che era la cosa buona da cui il Sessantotto è nato.
L’impressione è proprio che sui giornali questo “bilancio serio” sul Sessantotto non venga fatto, e si rimanga spesso nei termini di una semplice rievocazione: perché secondo lei c’è ancora questa resistenza?
I giornali sono in mano a chi legge il mondo soltanto in termini di potere e di ideologie. Il fenomeno di CL non viene considerato a causa di quanto detto da Augusto Del Noce, secondo cui nei confronti del cristianesimo la mentalità dominante ha sempre avuto una profonda slealtà. Più in generale, sul Sessantotto c’è un duplice atteggiamento: da una parte non manca l’autocritica, perché gli ex sessantottini sono molto critici sul Sessantotto; ma dall’altra parte sono anche autocelebrativi, e amano definirsi come la “meglio gioventù”. Sarebbe interessante invece affrontare la vicenda in termini diversi, ad esempio andando a cercare certe storie parallele, magari dentro la stessa famiglia, con un fratello finito nel movimento studentesco e l’alto in CL. Queste sì sono storie interessantissime da paragonare, per capire ad esempio qual è stata veramente la “meglio gioventù”.
Al Meeting si parlerà anche di un altro grande anniversario, quello di Giovannino Guareschi, al quale è dedicata anche una mostra. È forse giunto il momento in cui viene rivalutato questo grande scrittore a lungo trascurato?
Il popolo non ha mai dimenticato Guareschi. Quelli che lo hanno dimenticato ed emarginato sono le élites, che sono sempre state fondamentalmente di sinistra. Il grande marchio d’infamia di Guareschi era di essere apertamente e francamente anticomunista, e questo in Italia è un peccato che non si finisce mai di scontare. Certo, negli ultimi anni c’è stato chi lo ha riabilitato – come ad esempio Michele Serra – ma lo si riabilita alla fine nel suo aspetto di bella narrazione popolare e un po’ folkloristica. Quello che non si riabilita mai sono le ragioni profonde del suo anticomunismo, che a quel tempo era questione di vita o di morte.
Al Meeting, come ogni anno, c’è poi anche la politica…
La interrompo subito. Nonostante l’argomento sia nelle mie corde e nella mia vocazione professionale, sono riuscito da due anni a questa parte a non parlare né di governo, né di opposizione. La ritengo un’obiezione di coscienza rispetto ai giornali, che parlano solo di questo; basta vederne le prime pagine. Io ritengo invece che non solo non tutto è politica – al contrario appunto di quanto si diceva nel Sessantotto –, ma che la politica non è affatto la cosa più importante. Vorrei dunque continuare a mantenere questa mia obiezione di coscienza. Continuo a dire e pensare che le cose importanti accadono altrove, e che la politica diventa ideologia, sorda, inutile e dannosa – in tutti i casi, sia a destra che a sinistra – se e quando non si accorge delle cose che accadono. La mia, comunque, è una ripugnanza soprattutto nei confronti dei media, che trattano ciò che accade fuori dal palazzo come subcultura informe.
Allora le chiedo un ultimo sguardo sul Meeting: quali altre cose, incontri e persone andare a cercare?
Per quello che io so del Meeting, la cosa che di certo passa inosservata ai media, ma che non passa inosservata a quelli che al Meeting ci vanno, è la quantità straordinaria di persone, storie ed esperienze eccezionali di grandissima umanità, di grande suggestione e di grande forza. Quelli sono veramente i protagonisti. Magari può essere il missionario che viene dal Congo, o la suorina che lavora nelle carceri, o il gruppo di giovani che ha dato vita ad un’iniziativa: sono tanti esempi, e sono quelle le storie grandi che vengono fuori in incontri grandi o piccoli, ma che comunque sono incontrabili ad ogni passo nel Meeting, negli stand, tra le persone che ci passeggiano. Questi, ripeto, sono i veri protagonisti. Senza nulla togliere a politici e ministri, che hanno la loro dignità e il loro spazio, ed è giusto che ce l’abbiano. Però diciamo che questi ultimi costruiscono e fanno qualcosa di buono se si rendono conto che devono servire questo qualcosa che c’è fuori dalla politica.