Giovanni Cominelli, responsabile del Dipartimento Sistemi Educativi della Fondazione per la Sussidiarietà, ha presentato ieri al Meeting il suo libro La caduta del vento leggero, la storia di un ragazzo delle cattolicissime valli bergamasche segnato dall’ondata del Sessantotto. Sul fatidico anno di cui ricorre il quarantennale Cominelli parla oggi, sempre al Meeting, nell’incontro intitolato: «’68 Un’occasione perduta?». Ilsussidiario.net gli ha chiesto qualche anticipazione.
Non le sembra che l’anniversario del “formidabile” 68 stia passando un po’ in sordina?
In realtà mi pare che si continui nel vizio di un uso ideologico, non privo di strumentalizzazioni politiche, di quell’evento. È inutile attribuire al Sessantotto tutte le colpe dei nostri mali quanto lo è idealizzarlo acriticamente. La questione è cercare di capire. E per capire occorre uscire dal mito.
Cioè?
Occorre fare ciò che è stato fatto riguardo alla Resistenza. Quando ero giovane io e andavamo a sentire qualche partigiano, qualsiasi cosa dicesse era ricompresa nell’aura mitologica della Resistenza intesa, togliattianamente, come “nuovo risorgimento”. Oggi, invece gli storici iniziano a guardare a quel fenomeno in tutte le sue sfaccettature, comprendendo che in essa ci furono molti filoni. Lo stesso va fatto per il Sessantotto.
Proviamo.
Prima di tutto occorre dire che il Sessantotto fu un movimento e, come la sociologia ha ampiamente studiato, i movimenti sociali hanno uno stato nascente nel quale sono compresenti potenzialità diverse – e quindi diversi sviluppi – e diverse origini.
Da dove arrivava il movimento del Sessantotto?
Dallo straordinario sviluppo che l’Italia aveva avuto nel dopoguerra. Uno sviluppo che ha implicato fenomeni sociali di enorme rilevanza. Basta pensare all’emigrazione: 12 milioni di persone che si sono spostate, oppure allo sradicamento culturale e religioso comportato dall’abbandono delle campagne. In forza del grande sviluppo economico la maggioranza degli italiani si è trovata in una condizione tale per cui il problema non era più il sostentamento; cominciava, soprattutto nei giovani, ad emergere il tema della qualità, meglio del senso, di quello stesso sviluppo. Il Sessantotto è stato, in fondo, una domanda: ma dove stiamo andando?
E dove si stava andando?
È questo il punto: nessuno lo sapeva. O meglio, nessuno si è fatto carico del bisogno espresso dai giovani. Molti si arroccavano sulle loro posizioni; si figuri che una volta osai porre una domanda a un professore universitario a lezione; la risposta fu: “Non si disturba il manovratore”. Da un lato ci fu, dunque, un miope arroccamento fino alla repressione e dall’altro una cedevole connivenza con la quale ci si illudeva di acchiappare i giovani. Di fronte a questo vuoto di proposta si sono affermate correnti ideologiche, che affondavano le loro radici ben prima del Sessantotto.
Quali?
Anzitutto vorrei parlare del mondo cattolico. Il Concilio Vaticano II era stato un terremoto, che aveva messo in discussione un mondo che sembrava solido e compatto. Prima dell’evento conciliare il motto era “Christus vincit” e poi ci siamo trovati ad avere a che fare con la teologia della “morte di Dio”. Pochi, tra questi don Giussani, si erano accorti della debolezza di un cristianesimo apparentemente forte della sua struttura parrocchiale e del nesso col partito cattolico, ma debole di proposta educativa. Così siamo passati da una fede tradizionalista a una che, in fondo, non è altro che una pura costruzione mondana, un messianismo terreno. Da qui la contaminazione con l’altro messianismo, il marxismo.
Marxismo che ben presto è diventato l’ideologia dominante del Sessantotto.
Sì, però, anche qui bisogna fare delle distinzioni. Un conto è il Partito Comunista, che non era affatto rivoluzionario, e aveva a sua volta diverse anime. Una di queste, che poi si staccherà dal PCI, mirava ad una formazione politica basata sui “consigli (in russo: soviet) degli operai e degli studenti”. La fazione maoista si rifaceva alla rivoluzione culturale cinese (di cui non sapeva nulla), interpretandola erroneamente come esperienza di carattere libertario. C’erano poi tutti i vari gruppi che si contendevano la perfetta ortodossia marxista. Tra di essi ebbe poi fortuna il filone operaista. Fu a un convegno sindacale del 1962 – per questo ho parlato prima di radici lontane del Sessantotto – che un gruppo comunista sostenne per la prima volta che nell’Italia del boom economico non si poteva più parlare della dialettica padrone-operaio nei termini tradizionali; il capitalismo avanzato, secondo loro, aveva inglobato gli operai e le loro rappresentanze, per cui occorreva individuare la “nuova razza pagana”, cioè la nuova forza rivoluzionaria, e con essa fare, appunto, la rivoluzione. È all’interno di questo filone che si svilupperanno forme di lotta violenta, fino alle Brigate Rosse.
Nelle ricostruzioni del Sessantotto sembra dominante proprio il problema del suo rapporto col terrorismo.
Una certa impostazione storiografica attribuisce la deriva violenta del Sessantotto alla repressione delle proteste studentesche. Simbolicamente si prende l’attentato di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) come simbolo della reazione del potere, da cui sarebbe derivata la uguale e contraria risposta violenta dei contestatori; ma il Collettivo Politico Metropolitano di Milano, da cui sarebbero sorte le Brigate Rosse, è nato prima di piazza Fontana. L’opzione violenta era contemplata da molti gruppi; c’era una formazione politica che aveva nel suo simbolo la falce col mitra al posto del martello. Del resto la teoria che al fascismo risorgente si doveva opporre la lotta armata risaliva ai primi anni di vita repubblicana. Anche questo particolare aspetto mette in rilievo la necessità di una ricerca storica seria, approfondita, che stia attenta alla multiformità del fenomeno Sessantotto e che, finalmente, ce lo faccia comprendere per quello che è stato e non per il mito – positivo o negativo – che ce ne siamo fatti.