Professor Grossi, lei interverrà al Meeting all’incontro dal titolo “I 60 anni di Costituzione e sfide del futuro”. Cominciamo dalla nostra Costituzione: dopo 60 anni è ancora attuale?
La nostra Costituzione nacque in un momento storico particolare: dopo la guerra e dopo la caduta del fascismo. Essa è un esempio straordinario del compromesso tra le forze prevalenti allora. È una Costituzione bella perché plurale: in essa, infatti, la visione del mondo cattolica, marxista e del vecchio liberalesimo seppero incontrarsi e con grande responsabilità tornarono a valori condivisi. Questa visione non è pacifica. Già Iemolo, uno dei costituenti, ad esempio, non appena essa fu approvata fu molto critico verso di essa. Rimproverava alla Costituzione di non avere una identità chiara e che le regole erano troppo pasticciate, proprio per tenere insieme visioni della società molto diverse tra loro. A mio avviso, invece, il risultato fu straordinario. La prima parte, quella dei diritti, è ancora attuale e può continuare ad esistere così com’è. La seconda parte, invece, ossia quella istituzionale, è quella più soggetta al trascorrere del tempo, e va rivista.
E a suo avviso l’attuale momento politico può permettere di riscrivere, almeno parzialmente, la Costituzione?
No, non credo. È un problema di generazione: allora, dopo la tragedia della guerra, c’era la speranza. Quelle erano persone che sapevano guardare avanti. Lo Statuto albertino ormai era sorpassato, il ventennio era da dimenticare, e prevaleva la voglia di ricominciare: appunto, dopo la tragedia la speranza. La nostra Costituzione fu elaborata e approvata in quel periodo. A mio avviso, nelle persone oggi prevale la disperazione, non la speranza.
Scusi, ma la visione che dipinge del compromesso non è troppo idealizzata? La convergenza di correnti così diverse, oltretutto in un tempo così breve, non fu favorita soprattutto dalla condizione in cui si trovava allora l’Italia, con gli statunitensi ancora presenti con il loro esercito, il piano Marshall, Trieste ancora occupata, etc.?
Per altri paesi questo ragionamento è senz’altro vero: in Giappone questo aspetto fu determinante. Lo fu anche in Germania. La nostra situazione, però, era completamente diversa. In quegli anni ci fu innanzitutto una reazione della nostra società, nelle sue diverse anime, che seppe ritornare a valori comuni. La Costituzione nacque per una spinta nostra, non esterna.
Il titolo del Meeting è: “O protagonisti o nessuno”. Se dovesse fare uno o due nomi di chi fu protagonista nell’assemblea costituente chi direbbe?
Se posso dire un nome direi sicuramente La Pira. Se me ne consente due, La Pira e Dossetti. Tutti e due erano dei giuristi e, nonostante il ventennio, seppero riaffermare e portare nella Costituzione l’importanza della dimensione sociale dell’uomo. Nella costituente era dominante una visione liberale in cui lo stato e l’individuo si raffrontano direttamente, senza corpi intermedi. Durante i dibattiti della costituente loro seppero invece riportare il discorso proprio sui corpi intermedi. Eccezionale fu poi la figura di Mortati, un altro giurista e grandissimo costituzionalista.
Un famoso costituzionalista, Zagrebelski, una volta disse che bisogna tornare ad “appassionarsi ai diritti”. Appassionarsi dei diritti è possibile? Non è forse la realtà a destare passione?
Ha ragione, se il diritto è un diritto fatto solo di comandi. A mio avviso prima di appassionarsi ai diritti bisognerebbe recuperare il diritto. Il diritto non è comando, è altro: il diritto è una componente stessa della società. Io credo nella onticità del diritto, poiché il diritto è una componente stessa della realtà. Allora avremo recuperato la corretta scansione del fenomeno giuridico: società, diritto, stato, in questo ordine, e allora la frase appassionarsi dei diritti sarà corretta, e non le suonerà più strana. Solo, però, se cambia il modo in cui viene concepito il diritto.
“O protagonisti o nessuno” è un titolo che potrebbe calzare perfettamente per descrivere il suo percorso universitario e la sua produzione scientifica: come è stato per lei trovarsi in un mondo, quello dell’accademia giuridica italiana, dominato da un forte positivismo relativista, dove un’ “argomentazione sensibile alla verità” è tacciato quasi di intolleranza?
All’inizio parevo un eretico. Mi isolavano. Dicevano che corrompevo i giovani. Ora giuristi positivi di altre materie mi chiamano perché incuriositi dalle mie posizioni, e soprattutto tanti ragazzi, tanti giovani vengono a farmi domande, a cercarmi. Non è stato facile all’inizio, ma poi le risposte che arrivavano mi confortarono nel cammino preso.
Quindi ne vale la pena? Vale la pena osare, nonostante gli isolamenti e le incomprensioni iniziali del proprio ambiente?
Assolutamente sì. È una scelta che ha pagato; inoltre, adesso è anche più facile sostenerla, perché l’incapacità dello Stato sovrano di regolare e tenere unita la complessità della società contemporanea è manifesta, e l’accademia si dimostra più aperta, più sensibile a posizioni che fino a pochi anni fa erano inaccettabili.