Per lunghi anni è stato solo un sospetto, ora è diventata una certezza, avvalorata da studi, documenti e libri che stanno uscendo in continuazione: la storia degli ultimi cinquant’anni d’Italia se non è stata falsata, è stata certamente manipolata o almeno interpretata in maniera faziosa, soprattutto per quanto riguarda il periodo della Resistenza, l’immediato dopoguerra e, con la complicità della storiografia ufficiale, si è aperto un vero e proprio “romanzo giallo” sulla storia del Partito comunista italiano. Tutto questo ha avuto nella cultura e nella società italiana non solo un’influenza negativa, ma ha creato un autentico disamore per la verità storica e, in più, ha costruito un vero e proprio castello di carta inficiato di infiniti luoghi comuni. Se per tanti anni, la risposta alla storiografia della “vulgata ufficiale” è stata lasciata a un drappello di pochi uomini di destra, è anche vero che dalla fine degli anni Sessanta due grandi personaggi di sicura fede democratica hanno fatto barcollare le tesi della storiografia di sinistra. Due storici del valore di Renzo De Felice e di Rosario Romeo, che sono stati, soprattutto De Felice, contestati in modo inaudito dal movimento sessantottista e dallo stesso Pci. Tuttavia, nel violento conformismo italiano, sia De Felice che Romeo apparivano, alla fine, come una sorta di “opposizione a sua Maestà”, l’eccezione che conferma la regola.



Ora invece c’è una nuova generazione di storici che sta aprendo dei varchi enormi nel conformismo paracomunista e postcomunista, e sta rimettendo in discussione tutto quello che è stato faziosamente scritto e anche insegnato nelle scuole ai giovani studenti italiani.

Al Meeting di Rimini arriva Gianpaolo Pansa, cui va il merito di aver riscritto in modo giornalistico e divulgativo, un aspetto sottaciuto della storia della Resistenza italiana, quella fatta con “il sangue dei vinti”, perseguita con indegna faziosità e spirito di vendetta dai comunisti italiani. E Pansa è tutto tranne che un uomo di destra, anzi è un giornalista con dichiarate simpatie di sinistra. Ma al Meeting passano altri personaggi, come Enzo Bettiza, grande scrittore e grande giornalista, comunista alla fine degli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta, oggi anche grande storico, e ormai autentica coscienza liberal-socialista in orgogliosa opposizione all’ideologia comunista. Bettiza ha scritto quest’anno, edito da Mondatori, un libro dal titolo La primavera di Praga 1968. La rivoluzione dimenticata. Uno spaccato folgorante, ricostruito con le sue corrispondenze di inviato speciale del Corriere della Sera dell’epoca, e con lo stile di un notista politico lucidissimo sulla tragedia della Cecoslavacchia e del suo leader dimenticato, Alexander Dubcek.



Nel libro, Bettiza non ricostruisce solamente la brutale invasione sovietica che mette fine alla “primavera praghese”, ma fa un paragone tra quel sessantotto cecoslovacco, autenticamente idealista e al tempo stesso concreto, generoso e ansioso di libertà e di democrazia, e il sessantotto confusionario dell’Occidente, carico di frustrazioni, irrazionalità, violenze. Sostanzialmente antidemocratico, filomarxista, anche se con ispirazioni immaginarie ed estemporanee che esaltavano gli enfant gaté delle democrazie occidentali.

C’è però un testo che entra ancora di più nell’alveo della riscrittura della storia italiana del Novecento. E’ il nuovo libro di Ugo Finetti, oggi giornalista della Rai, un tempo dirigente di prima fila del Psi craxiano. Finetti è ormai uno storico affermato che può mettere in serio imbarazzo la vulgata e soprattutto i santuari dell’iconografia togliattiana e della Resistenza letta in chiave filocomunista, come il famoso Insmli (Istituto nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione). Il libro di Finetti ha un titolo che sembra introdurci in un campo specialistico Togliatti&Amendola. La lotta politica nel Pci dalla Resistenza al terrorismo. Il volume, edito da Ares, non è affatto un libro per studiosi specializzati, ma uno squarcio sulla realtà e il mondo del Pci, il più grande partito comunista occidentale, che ha sempre proclamato e difeso la sua “italianità”, che ha sempre contrabbandato la “via italiana al socialismo”, facendo diventare un leader del Komintern come Palmiro Togliatti una sorta di “Grande italiano”. Proseguendo un’analisi, cominciata con La resistenza cancellata, Finetti pesca con precisione tra i documenti dimenticati (volutamente dimenticati) dall’archivio storico del Pci gli interventi di Palmiro Togliatti, la sua linea costantemente filostalinista e internazionalista, che nulla avevano a che fare con l’affermazione e il consolidamento della democrazia in Italia. Intorno alla figura di Togliatti si snoda una storia del Pci e dell’Italia che è piena di cassetti a “doppio fondo”, dove la “doppiezza” togliattiana serve ad accreditare un’immagine del Pci che non è mai esistita: dagli anni Trenta fino al crepuscolo del comunismo interpretato da Enrico Berlinguer.



Il vero problema è che Ugo Finetti, al contrario degli storici della vulgata, conosce bene la letteratura comunista mondiale e, nello stesso tempo, ha acquisito sia i documenti reali che sono usciti dagli archivi di Mosca con la caduta del Pcus, sia quelli incompleti o mancanti che sono usciti dall’archivio del Pci, filtrati con zelo e scrupolo vergognoso dall’Ufficio di segreteria di quel partito. Un filtro che consente ancora oggi una nuova “idealizzazione” di Togliatti, visto in modo errato come il vero interprete della “svolta di Salerno”, che gli fu invece imposta da Stalin con una sbrigativa convocazione notturna; una “idealizzazione” assurda del leader che si oppose alla destalinizzazione e che si contrappose alla svolta krusceviana, diventando quasi un cospiratore contro il segretario del Pcus che al XX congresso denunciò i crimini staliniani; una “idealizzazione” spaventosa di un esponente politico che inviò una lettera al Pcus per invocare l’intervento armato sovietico nell’Ungheria del 1956. È a questo punto che la storia del Pci diventa una sorta di “romanzo giallo” ed è a questo punto che gli storici della vulgata fanno diventare la storia del Pci e dell’Italia del dopoguerra un capitolo ampio e imbarazzante di questo “romanzo giallo”, dove comunque si scopre facilmente il colpevole.

La controprova viene dalla rimozione dell’unico leader storico del Pci, Giorgio Amendola, figlio del grande leader liberale Giovanni, che si oppone dal 1956 alla linea di Togliatti, poi a quella di Luigi Longo e infine rompe clamorosamente nel 1979 con il Pci di Enrico Berlinguer.

Ugo Finetti ripercorre nel suo libro i grandi contrasti tra Giorgio Amendola e Palmiro Togliatti, ma in più documenta tutta la polemica sostenuta da Amendola contro l’estremismo interno ed esterno al Pci. È sempre Amendola che viene quasi “minacciato” da Togliatti dopo un famoso comitato centrale del Pci di commento al XXII congresso del Pcus. È ancora Amendola che dichiara nel 1964 il “fallimento del comunismo” e propone la nascita di un nuovo partito della sinistra, aperto ai socialisti e persino alla forze della socialdemocrazia e della democrazia laica italiana. Ed è ancora, sempre, Amendola che risponde con le rime alla politica contrattuale del “salario come variabile” e della “scala mobile non si tocca”, e soprattutto all’estremismo del sindacalismo influenzato dal sessantotto italiano.

Non dovrebbe essere un precursore Giorgio Amendola del nuovo Partito democratico? In teoria, sì. In pratica invece, Amendola è un grande personaggio della sinistra, un “pezzo” storico che è stato rimosso e dimenticato in “soffitta”. Il perché ? Perché aveva messo in imbarazzo Berlinguer, la sua politica e tutti i suoi figli e “figliastri” con una lucida chiarezza politica di sinistra reale, non quella immaginaria che “voleva la luna”. Oggi, i “padri” storici della sinistra italiana sembrano i Vittorio Foa, i Pietro Ingrao, le Rossana Rossanda, i Bruno Trentin, tutti personaggi che hanno sempre violentemente contestato Amendola. Del grande e vecchio leader figlio di Giovanni Amendola, non si ricorda più neppure il “pupillo” Giorgio Napoletano, diventato Presidente della Repubblica. Non lo ha mai scritto nessuno. Per fortuna che lo ha fatto Ugo Finetti con questo suo ultimo libro.