La folla si accalca entusiasta intorno allo sparuto drappello dei volontari che cercano di proteggerlo. Eppure lui, il professor Eugenio Borgna, nonostante l’età avanzata, non sembra per nulla turbato, a tutti dà retta e a ognuno risponde con gentilezza, accompagnando le parole con gesti pacati e un’eleganza connaturata alla sua notevole statura. Primario emerito di Psichiatria presso l’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali all’Università degli Studi di Milano, Borgna è intervenuto al Meeting di Rimini sul tema della solitudine, un argomento che accompagna molte vite dell’odierna società.
Professor Borgna non siamo fatti per essere soli è un titolo affascinante, ma può adattarsi a molteplici contesti. Come mai è stato interpellato un professore di psichiatria del suo calibro per intervenire sulla solitudine?
Perché è un tema di importanza fondamentale sia dal punto di vista psicologico, sia dal punto di vista umano, sia dal punto di vista cristiano. Noi non siamo isole lontane dal mondo, la vita ci dimostra che ci possiamo aiutare e organizzare soltanto quando siamo insieme agli altri. Un titolo così provocante mi ha posto di fronte a una delle realtà con le quali noi medici ci imbattiamo continuamente, ossia la solitudine, la condizione di abbandono in cui molti vivono, insieme alla disperata nostalgia di un incontro che può essere fatto di parole, di ascolti tecnici, ma anche, e soprattutto, di semplici gesti che nascono dal cuore. Quindi e un argomento di cui ogni essere umano in effetti si dovrebbe interessare, chiunque incontra delle persone problematiche, e spesso per questo evitate, alle quali però basterebbe un sorriso e un po’ più di attenzione per ridare un po’ di speranza.
In un’epoca che vede, o che vorrebbe vedere, il tramonto di alcune grandi scuole del pensiero psicoanalitico, spesso sostituito da terapie neurologiche o farmacologiche, che ruolo da protagonista può avere la psichiatria per il futuro?
Intanto non è così vero che le cure psicanalitiche stiano tramontando, diciamo che oggi sono sommerse dal dilagare di terapie cognitivistiche oppure, talvolta, anche da deformate interpretazioni della psicoanalisi.
In secondo luogo ci sono numerose situazioni cliniche che evidenziano un bisogno di appoggi psicoterapeutici che non siano rigorosi e invadenti come quelli congnitivistici e farmacologici. Nella maggior parte dei casi di malattie mentali soltanto le parole che nascono da un’esperienza psicologica, fatta di incontri e ascolto, riescono ad essere davvero terapeutiche. Quindi dovremmo sfondare i pregiudizi che ci impediscono di cogliere, di raccogliere e di intravvedere questa che, a mio avviso, è una verità psicologica. Tanto più lo testimonia un’esperienza professionale come la mia che si è formata per lo più in un manicomio. Il manicomio è il luogo dove più si dimostra che nei confronti della follia la cura più valida resta quella della psicoterapia, del dialogo e di una terapia farmacologica leggera e non certo di questi modelli ai quali abbiamo accennato. Se si conosce bene la follia dei ricoverati in manicomio risulta difficile abbandonare questo modo di vedere le cose.
Dove si colloca, secondo lei, il confine fra pulsione inconscia e volontà dell’uomo?
Questo è un problema non tanto psicologico, ma filosofico. Occorre scegliere una risposta esistenziale, un modo di vedere il mondo. C’è una concezione che ritiene che il determinismo puro sia la dimensione esistenziale che detta le leggi dei nostri comportamenti. L’altra posizione è rappresentata da quella opzione filosofica che ritiene che noi siamo esseri liberi e capaci di controllare quelle che sono le istanze inconsce della personalità.
In merito a ciò io non mi ritengo portatore di una verità assoluta, ma mi limito a fornire la mia esperienza, soprattutto, e lo ribadisco quella che ho avuto come medico in manicomio. Gli anni passati in ospedale mi hanno profondamente convinto che la dimensione della libertà e della scelta rappresenta senz’altro un’area preminente nei confronti di quelle che possono essere le correlazioni inconsce che riempiono i contenuti dei nostri comportamenti ma che non sono tali da determinare in noi un fatalismo, un determinismo, una assoluta mancanza di libertà. La concezione determinista a mio avviso emerge non tanto dalle teorie di Freud quanto dalle teorie delle moderne neuroscienze, per le quali invece tutto nasce in fondo da determinati circuiti nervosi impazziti da una determinata mancanza o eccedenza di sostanze neurochimiche che determinerebbero il fatto di essere poeti o ingegneri, generosi o avari, ma chiusi nelle prigioni del finito. Mentre l’uomo è aperto di per sé alla dimensione dell’infinito, a prescindere dalle condizioni psicofisiche in cui si trova.
Lo studio della psichiatria rappresenta forse il trait d’union fra le scienze naturali e quelle umanistiche. Essa si pone l’obiettivo di conoscere l’uomo fino in fondo senza però misurarlo o analizzarlo con metodo prettamente scientifico. Riconosce questa caratteristica come qualcosa di positivo?
Apprezzo molto questa domanda perché mi consente di ripetere quel che vado scrivendo da anni: la psichiatria è “ancipite”, ha due teste. Da una parte è scienza naturale, basti pensare allo studio sugli psicofarmaci che si fa dipendere da determinati fenomeni psichici i quali si possono collegare ad altrettanto determinate reazioni farmacologiche o neurochimiche. Altri disturbi invece li possiamo intendere solo se la psichiatria viene concepita come scienza umana. Quando si fonda su un rapporto con una persona e sulla ricostruzione della sua storia, su quali speranze si basa la sua vita, essa svela un’apertura tipicamente umana e umanistica. È chiaro che su questo versante non ha la pretesa assolutista delle scienze naturali, ma è altrettanto vero che esulandola dal contesto scientifico si corre oggi il rischio di diventare riduzionisti. Per questo mi trovo d’accordo con don Giussani quando egli analizza le dinamiche moderne dell’ideologia riduzionista e relativista. Di fronte al dilagare delle neuroscienze, che ora va molto di moda, si rischia di considerarle il solo parametro e il solo paradigma sul quale si gioca e si intende il senso della vita e della morte.