«È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?». Dopo aver risuonato nello spettacolo iniziale di questo Meeting – “La straniera”, tratto dai “Cori da La Rocca” – l’imponente domanda del poeta inglese Eliot torna come nota di fondo per accompagnare l’incontro clou nella giornata odierna dell’evento riminese. “Chiesa e modernità”: questo il titolo dell’appuntamento, cui partecipano monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia Pro Vita e rettore della Pontificia Università Lateranense, e monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro. Un rapporto, quello tra Chiesa e modernità, particolarmente stretto, perché, come dice Fisichella, «l’uomo di oggi ha bisogno di un soggetto che annunci una presenza che salva». 



Monsignor Fisichella, uno degli aspetti più problematici della modernità, come spesso ha ricordato don Giussani, è la separazione, o addirittura la frattura tra ragione ed esperienza. È così?

Quello che nella modernità troppo spesso si dimentica è che l’esperienza è una delle prima forme di conoscenza che l’uomo possiede, e dimenticandolo si distacca la ragione non solo dalla capacità di fare propria l’esperienza, ma anche di capire perché si vive l’esperienza stessa. Condivido dunque la riflessione sul fatto che ci sia stata una rottura di questo tipo: si è assolutizzata una ragione tecnologica e scientifica, e non si è visto che ogni persona ha diverse altre forme di conoscenza che sono spesso più ricche e più feconde, la prima della quali è appunto l’esperienza.



Qual è il processo storico e culturale che ha prodotto questo effetto? 

Si tratta del processo che ha di fatto dato inizio alla modernità, un processo in base al quale si è voluto costituire, con il primato assoluto della ragione, una rottura definiva rispetto a quell’unità esistenziale che era invece caratteristica del Medioevo. Anziché coniugare l’unitarietà della persona in tutto ciò che comporta le sue espressioni (ragione, sentimento, esperienza, testimonianza), si è voluto assolutizzare il primato della ragione a scapito della altre forme di conoscenza. L’uomo che ne è emerso non è più un’unità fondamentale in se stesso, ma è stato frammentato in tante espressioni che lo hanno indebolito. È divenuto un uomo che si serve soltanto di una parte delle sue capacità conoscitive e non usa in pienezza la stessa capacità della ragione, che lo porterebbe individuare altre forme di esperienza.



Il titolo del Meeting di quest’anno, “O protagonisti, o nessuno”, è un’espressione molto forte, che pone un’alternativa quasi radicale. Qual è il valore di un’affermazione di questo genere? 

Io credo che l’espressione sia estremamente felice, perché fa comprendere, se ben interpretata, il vero pensiero cristiano. Contiene un messaggio fondamentale per una società come la nostra dove viene a mancare l’originalità di ognuno, a causa dell’appiattimento cui si assiste. Il pensiero cristiano ha da sempre portato la considerazione che Dio conosce ognuno di noi singolarmente, addirittura per nome. Come dice la Bibbia, il Signore «fin dal grembo materno» ha pronunciato il nostro nome; o come dice poi San Paolo, «Dio ci ha chiamati ancor prima che il mondo fosse creato». L’uomo se è solo davanti a se stesso rischia di non comprendersi; se è davanti a Dio diventa invece protagonista della propria vita. 

Nel suo intervento al Meeting, il cardinal Bagnasco ha ricordato la caratteristica fondamentale della Chiesa come «popolo», un popolo che fa storia. Cosa significa essere se stessi, essere protagonisti, dentro un popolo?  

La bellezza del cristianesimo, ben espressa dai tanti richiami che Giussani ha fatto, è che Dio entra nella storia. L’evento di Gesù è questo: Dio entra nella storia e la modifica, portando al superamento dell’antica concezione ciclica degli eventi umani. La storia si trasforma in un cammino progressivo che viene compiuto da un popolo che si affida con la fede a Dio, per farsi guidare da Lui. Ogni singolo poi vive della propria storia; ma perché ci sia storia è necessario che ci sia una comunità all’interno della quale ciascuno si trova e comprende la propria umanità, scoprendo la propria appartenenza.

La modernità ha ancora bisogno della Chiesa?

È l’uomo che ha bisogno della Chiesa, ed è l’uomo di oggi, in particolare, che ha bisogno che ci sia un soggetto che annunci che c’è nella storia una presenza salvifica. La Chiesa non è solo colei che annuncia, ma colei che continua a rendere visibile l’opera di Cristo. L’uomo di oggi ha bisogno di incontrare Cristo per essere protagonista; e ha bisogno della Chiesa per incontrare il Cristo risorto. Perché ci sia progresso, poi, è necessario che ci sia il rispetto di ogni persona e del bene di tutti; se ognuno di noi si chiude invece in se stesso non andrà lontano. Ecco allora che la modernità ha bisogno della Chiesa perché la Chiesa può fare capire qual è il percorso necessario per compiere e per raggiungere un progresso e uno sviluppo che siano pienamente umani.