La sera del 6 agosto di trent’anni fa moriva Papa Montini. Al termine di una domenica normale in cui semplicemente il Papa non si era affacciato per la recita dell’Angelus, Paolo VI usciva in silenzio e con discrezione dalla scena di questo mondo, accompagnato dal fedelissimo segretario Pasquale Macchi e da pochi amici, in quella residenza di Castel Gandolfo in cui vent’anni prima era spirato il “suo” Papa Pio XII. Era il giorno della Trasfigurazione, festa liturgica che ricorda come in Cristo tutta la realtà assuma una luce diversa come sul Monte Tabor, e nessuna coincidenza sarebbe stata più provvidenziale per terminare la vita di un uomo come Montini che, diversamente da come fu spesso descritto, non era affatto l’amletico asceta di una incertezza triste e quasi disperata, ma piuttosto il solare servitore di una Gloria che sapeva appartenere non alla sua persona ma alla Chiesa che tanto amava e serviva.
Molto si è detto e si è scritto su di lui, ma su due aspetti, spesso ignorati, vale la pena soffermare ancora l’attenzione dopo tanti anni: la continuità del suo pontificato con il prima e il dopo della vita della Chiesa e la dimensione gioiosa del suo magistero.
Sulla prima questione Paolo VI ha avuto lo strano destino di passare come rivoluzionario rispetto a Pio XII, di cui era stato il fedele interprete per tanti anni, e reazionario rispetto a Giovanni XXIII, di cui portò a compimento in maniera saggia ed equilibrata l’intuizione conciliare. In realtà era la storia che cambiava e chiedeva di essere riletta con originalità: non era più pensabile il carattere monolitico del mondo cattolico pacelliano, ma al tempo stesso non era tutto buono il cambiamento del post-concilio, anche perché secolarizzazione ed indifferentismo penetravano la Chiesa oscurandone identità e missione. Tenere insieme Tradizione e rinnovamento non poteva essere solo un’operazione intellettuale o di aggiustamento di qualche aspetto della pastorale: richiedeva, piuttosto, l’autorevolezza di chi, obbedendo solo a Cristo, valorizza ogni novità senza lasciarsi intrappolare dalle mode, sapendo che un mondo senza Dio è solo triste ed oscuro e che un’umanità senza Chiesa (o con una Chiesa “anonima”) resta più povera. Ecco allora un Papa che per primo viaggia in tutti continenti (anticipando Wojtyla), che internazionalizza la Curia e la snellisce (creando le condizioni per l’elezione di un Papa non italiano), che non si stanca di catechizzare (con una semplicità fine e dotta che verrà recuperata da Albino Luciani), che fonda l’apertura al dialogo con le religioni e le culture sulla limpida testimonianza della Verità nell’inscindibile unità tra fede e ragione (aprendo la pista cara a Benedetto XVI, ultimo cardinale creato da Paolo VI nel 1977).
Dunque l’esaltante percorso di rinascita della fede, soprattutto tra i giovani, che ha segnato questo trentennio non sarebbe stato possibile senza l’audacia prudente di Montini! Ma il segreto di tutto ciò non può essere ricondotto solo alla finissima intelligenza e alla sterminata cultura di Paolo VI! C’è di più: il segreto è nella sua personale esperienza di gioia, evocata nel bellissimo documento “Gaudete in Domino” pubblicato nel 1975 durante un contestatissimo Anno Santo.
L’essenza della fede è inseparabile dalla gioia di essere stati redenti e di essere testimoni della letizia: il cristiano non è uomo della rinuncia alla felicità vera, ma è uomo della pienezza di ogni aspetto positivo, per questo gusta la vera gioia, non incosciente delle difficoltà del tempo presente ma certo del Bene. Perché “la gioia nasce sempre da un certo sguardo sull’uomo e su Dio”, sguardo da cui sgorga quel “gaudio della Verità” che Paolo VI ha costantemente testimoniato.
(Giampaolo Cottini, docente di Etica sociale all’Università Cattolica di Milano)