Etsuro Sotoo, scultore giapponese, laureatosi nel 1977 all’università di Belle Arti di Kyoto, dall’anno successivo ha cominciato a lavora incessantemente alla Sagrada Familia di Barcellona, il cui progetto e la cui costruzione sono state realizzate dal famoso architetto cattolico catalano, Antoni Gaudì.

Dottor Sotoo, sono ormai trent’anni che lei lavora all’opera del grande artista catalano. Il suo rapporto con Gaudì si può ormai definire di “amicizia” sebbene virtuale?



Adesso posso dire che io e Gaudì siamo amici, mentre prima sarebbe stato assurdo affermarlo. Quando studiavo scultura era per me un perfetto sconosciuto e ignoravo la sua genialità. Poi quando ho dovuto studiarlo a scuola ho cercato da subito di comprendere chi era. In seguito, non appena cominciai a lavorare per la Sagrada Familia iniziai a raccogliere un numero impressionante di dati e di libri che me ne potessero sempre più chiaramente illustrare il percorso biografico e artistico.



A un certo punto però mi sono reso conto che ero arrivato a un limite. Un punto oltre il quale, nonostante l’immensa mole di dati accumulati non potevo dire di conoscerlo. E andai in crisi?

Che cosa era accaduto?

Ero in una profonda confusione, non riuscivo ad andare avanti col mio lavoro. Più tardi pensai, o meglio capii, che Gaudi stesso stava proprio aspettando il momento in cui avrei avuto queste difficoltà. Siccome non potevo proseguire con la mia opera, pensai di lasciare da parte il profilo biografico e le idee di Gaudì che erano quasi divenute un’ossessione.

Poi ebbi un’intuizione. Capii che per conoscerlo avrei dovuto guardare dove guardava Gaudì. E ho la sensazione che a partire da quel momento entrambi ci compenetrammo spiritualmente. Da subito mi sentii molto più libero e, anche a livello del mio lavoro di scultore, se prima avevo molte difficoltà, dopo quel momento sono riuscito a capire come procedere. Al principio pensavo che questa fosse la felicità, il compimento della mia vita, ma ne era solo una piccola parte. Perché dopo ho scoperto quale era il mondo in cui Gaudì voleva condurmi.



Allude alla sua conversione al cattolicesimo?

Sì. Il mio obbiettivo era quello di divenire un bravo scultore, ma, come dire, questa era solo la “carota”. Io sentivo Antoni Gaudì come maestro e anche amico, perché aveva cura di me, e un amico è proprio chi si prende cura di un altro, lo aiuta.

Avevo nelle mani tutti i dati relativi al mio maestro. Sapevo che portava i baffi, che insodossava spesso il cappallo, perfino come sorrideva. Ma continuavo a ripetermi: “devi stare dove lui stava”, cioè nella Chiesa.

In Giappone, se vuoi fare lo scultore, ti insegnano a curare molto gli strumenti, ti insegnano l’amore per la pietra. Quindi ero preparato all’amore per il lavoro, molto meno all’amore per l’autore (o Autore) di un lavoro.

In Occidente abbiamo una considerazione del Giappone come di una società in cui le persone vengono concepite come meri elementi di un immenso meccanismo, che può essere lo Stato o anche l’azienda. Come si può essere protagonisti per la cultura orientale e giapponese?

In parte questo è vero, ma aggiungerei una cosa: in Giappone la prima nozione che insegnano a livello educativo è convivere e stare con gli altri. Essendo un’isola è molto importante saper stare vicini a un’altra persona. Quindi la famiglia e l’organizzazione della società rendono impensabile il fatto che un individuo stia da solo.

Essere protagonista in Giappone significa quindi stare con qualcuno e aiutarlo, non concepirsi da soli, ma avere bisogno degli altri. Ci sono modi diversi di esprimerlo però l’amore che sta alla base, il sacrificio di uno per l’altro si capisce in tutto il mondo, anche se il modo di esprimerlo è diverso. Quindi mi si perdoni se dico che in tal senso senso il Giappone è un po’ più avanti rispetto all’Occidente. Qui invece si pensa forse troppo all’individuo, ma la famiglia è un bene che si sta dimenticando.