Il discorso del Papa al Collège des Bernardins di Parigi del 12 settembre è un altro importante tassello del pontificato di Benedetto XVI sul rapporto fede-ragione: dopo il celebre discorso di Ratisbona di due anni fa sul tema del Logos come fattore portante della coscienza religiosa, e la lezione non tenuta alla Sapienza di Roma dell’anno scorso dedicata al rapporto con la Scienza e alla vocazione dell’Università, l’incontro con gli intellettuali in un luogo edificato “dai figli di San Bernardo di Clairvaux” costituisce un’importante esame dei fondamenti della cultura.
È singolare e quasi provocatorio che il Papa abbia scelto proprio la laicissima Francia, terra del razionalismo cartesiano, dell’anticlericalismo illuministico, dello scientismo positivista di Comte, per lanciare il suo messaggio sul significato religioso e sui fondamenti cristiani della cultura europea, scegliendo non una tribuna istituzionale (come aveva fatto Giovanni Paolo II nel suo celebre discorso all’UNESCO del 1980), ma un luogo nato per ospitare la formazione dei monaci ed ora utilizzato per favorire l’incontro tra intellettuali cattolici e laici.
Colpisce anzitutto il metodo di affronto del discorso: non una partenza dal dibattito culturale contemporaneo o una discussione sulle opinioni presenti nell’attuale supermercato delle idee, neppure una disanima critica delle ideologie dominanti o un’analisi critica del relativismo filosofico, ma una dottissima ed acuta lezione di taglio accademico, che apparentemente sembra dedicata solo alla ricognizione dell’esperienza monastica, e che in realtà esemplifica qual è il cuore dell’esperienza culturale e quale ne è il metodo. Paradossalmente l’intenzione dei monaci non era di creare una cultura, ma di cercare Dio (“quaerere Deum”), per cui “nella confusione dei tempi in cui nulla sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre”. Con questo è tracciato il loro cammino culturale, che non consiste in un discorso sulla realtà o su un’interpretazione filosofica, ma si propone come ricerca di ciò che è definitivo dietro le cose provvisorie, perché i monaci “dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali”. Con ciò viene stabilito il cuore della cultura monastica, che risiede nella ricerca di Dio che giustifica lo studio della Scrittura, e crea una cultura della parola per esplorarne la Verità non in maniera arbitraria ma interpretandola in profondità. Poiché Dio parla all’uomo in maniera comprensibile, il monaco riscopre che la Parola è compresa nella comunità in cui essa si è formata e in cui è vissuta, ma essa non può mai essere ridotta a pura “lettera” poiché chiede di essere compresa attraverso lo Spirito e ciò implica il trascendimento dell’immediato.
Proprio per questo lo studio della Scrittura insegna che c’è un limite all’arbitrio soggettivo e all’interpretazione del singolo, e che cultura significa accogliere un legame che supera l’interpretazione letterale dei testi, il legame dell’intelletto e dell’amore. Così la civiltà occidentale impara che la vera libertà non è assenza totale di legami ed imposizione del proprio punto di vista (che in campo religioso conduce al fanatismo e al fondamentalismo), ma è capacità di ascoltare il Logos presente nella Scrittura come Verità universale. È questa verità che dà senso anche alla cultura del lavoro, cioè alla trasformazione della realtà per collaborare all’opera della Creazione, nell’ottica per cui occorre “guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere”. Dire questo apre una prospettiva di “allargamento della ragione”, anche pratica, che consente di vedere il positivo presente in tutto, mettendo il monaco nella certezza che la fede riguarda tutti perché dice la Verità dell’uomo e non l’opinione di un gruppo da diffondere per proselitismo. Benedetto XVI è talmente convinto di ciò da porre con energia una disanima critica degli idoli contemporanei che distolgono l’uomo dalla Verità, dicendo nella grande Messa, celebrata sull’Esplanade des Invalides, (a poca distanza dalla tomba di Napoleone) che “mai Dio domanda all’uomo di fare sacrificio della sua ragione. Mai la ragione entra in contraddizione reale con la fede”, nel solco dell’esaltazione dell’unità fede-ragione che gli sta tanto a cuore e che lo rende libero di parlare a tutti con simpatia umana, ma senza equivoci.
La cultura non può prescindere dalla domanda su Dio, l’Ignoto-conosciuto di cui parlava San Paolo nel discorso all’Areopago di Atene e di cui l’intelletto umano presagisce l’esistenza, altrimenti si scade nella riduzione della realtà all’irrazionale. E il Papa sa che l’odierna apparente assenza di Dio è “tacitamente assillata dalla domanda che lo riguarda”, per cui mai la cultura può prescindere dalla grande domanda su Dio, meglio dalla grande attesa che Dio si mostri. Neppure la pretesa positivista di definire tale interrogativo come inutile perché non scientifico può essere giustificata, perché condurrebbe alla “capitolazione” della ragione e ad un “tracollo” dell’umanesimo. Significherebbe rinunciare alle possibilità più alte della ragione che da sempre ha creato cultura come ricerca dell’Assoluto e come disponibilità ad ascoltarne la Parola per illuminare la condizione umana.
Che tutto ciò sia detto, contro ogni riduzione particolaristica e settoriale del sapere, in una Francia che è “primogenita della Chiesa” per Storia, ma anche attuale culla della cultura del razionalismo relativista, non è cosa da poco: fa parte dell’intelligenza di Papa Ratzinger che, prima di essere accademica, è veramente pastorale, cioè amorosamente chinata sull’uomo per dargli motivi di speranza, tanto più nella terra di Francia che Sarkozy vorrebbe trasformare in un “laboratorio di laicità positiva”.