Il card. Giuseppe Siri (1906 – 1989) è appena stato ricordato in un convegno nazionale a Genova (12-13 settembre), che ha visto la partecipazione di autorevoli storici, teologi e uomini di Chiesa. L’occasione era la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della prima messa del porporato; in realtà l’ispirazione proviene da più lontano, e precisamente da un dibattito apertosi ormai da alcuni anni sulla figura e le scelte dell’alto prelato genovese, il “papa non eletto”, in una ormai celebre definizione del suo primo biografo e testimone, Benny Lai (Laterza 1993).
Il punto centrale di questa discussione verte sul ruolo recitato da Siri nell’ambito dell’episcopato e della Chiesa universale, ma anche dell’intera società italiana, in particolare in corrispondenza con alcune fasi delicate del rapporto tra mondo ecclesiastico e civile, quali gli anni Sessanta del boom economico e le loro contestualizzazioni politiche, la nascita e la strutturazione della Chiesa italiana (CEI), il Concilio Vaticano II, la contestazione del Sessantotto, la nascita dei nuovi movimenti ecclesiali. Svolte decisive, queste, ed assai incalzanti, realizzatesi attraverso quattro pontificati densi di significato come quelli di Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II (oltre alla breve, ma non priva di significato, parentesi di papa Albino Luciani).
Nonostante il suo profilo decisamente nazionale, e internazionale almeno in ambito ecclesiastico, Siri è stato innanzitutto arcivescovo di Genova, e per più di un quarantennio (1946-1987), amministrando pastoralmente il capoluogo ligure dalla Ricostruzione sino quasi alla conclusione della Guerra Fredda, per cui è parso opportuno che il primo seminario scientifico organizzato dalla Associazione a lui intitolata (www.cardinalsiri.it), si tenesse proprio presso la sua sede episcopale e vedesse la partecipazione attiva e appassionata del suo successore (tra l’altro, da lui ordinato), il card. Angelo Bagnasco, che ne ha recentemente ereditato anche gli incarichi nazionali, come attuale presidente della CEI.
In altra sede, e in particolare nella pubblicazione degli Atti, si darà conto dei numerosi interventi che hanno cercato di delineare il profilo e le scelte dell’uomo di Chiesa, mentre qui pare opportuno solo introdurre la questione di fondo concernente la biografia di Siri, ovvero il suo rapporto con la modernità nell’ambito dell’evoluzione dell’istituzione ecclesiale e i suoi riverberi sulla società civile. Tale rapporto rimanda poi a un quadro di lettura più ampio, quello delle correnti di pensiero, in molte occasioni contrapposte, che hanno animato la lettura della relazione Chiesa-mondo durante il processo di globalizzazione in atto nel secondo Novecento, il quale inevitabilmente ha posto in discussione la visione del Vaticano I, per molti versi ancora tridentina, della vita cristiana.
Sotto questo profilo, la figura di Siri ha patito e patisce in parte ancor oggi indubbiamente di un luogo comune della storiografia conciliare e postconciliare, avvaloratosi soprattutto nella pubblicistica e in alcuni gruppi culturali italiani affermatisi alla conclusione dell’assise vaticana, variamente intrecciati in un cote ideologico che ha talvolta confuso il concetto di apertura ai “segni dei tempi” con quello di “progressismo” tout court, secondo una mentalità caratteristica della Contestazione.
Tale stereotipo insiste in sostanza sull’immagine del presidente, e di fatto fondatore, della CEI teso a voler “difendere” la tradizione del magistero prevalentemente in chiave consevatorista e anticonciliarista (si veda, ad esempio, una recente intervista a Giuseppe Alberigo, «È guerra sul Concilio», di Simonetta Fiori, «La Repubblica» – 2 Luglio 2005, dove a Siri si attribuisce insieme ai card. Spellman e Ottaviani, la paura per «la portata innovativa del Concilio»), una lettura che ha potuto appoggiarsi su taluni atteggiamenti “difensivi” assunti nel quadro delle gravi responsabilità e dei momenti delicati attraversati dal prelato genovese, ed anche su una certa immagine di conservatore tradizionalista avvaloratasi per forzato contrasto nel quadro generale dalla lettura esclusiva del Vaticano II come “novità”.
Una interpretazione biografica volta quindi a enfatizzare taluni atteggiamenti e scelte di carattere dogmatico e operativo di Siri – peraltro spesso riferiti da membri dell’episcopato appartenenti a correnti di pensiero a lui storicamente opposte –, che non pare però oggi sufficiente ad esaurire l’interpretazione delle sue scelte e della sua mentalità. Una nuova prospettiva sul prelato ligure comincia ad emergere grazie all’ausilio delle fonti d’archivio finalmente disponibili – soprattutto quando non incastonate in letture dal sapore preconcetto – avvalorante piuttosto la dimensione “popolare” del cardinale di Genova, comunque prudente nell’accedere ad un rinnovamento programmatico della Chiesa, quando egli lo valutava più percorso da uno spirito ideologizzante che da una reale ansia di recuperare la sensibilità dei credenti, ma per questo tutt’altro che incapace di ascoltare le domande della società e di immaginare nuove vie di dialogo con il magistero e la gerarchia: altrimenti non si spiegherebbe il vasto impegno da egli profuso nel mondo del lavoro, nel dialogo e la promozione del laicato, soprattutto nella elaborazione di un modello “italiano” di Chiesa aderente allo spirito culturale della Penisola (ovvero, il suo contributo fondativo alla CEI).
Di questo profilo maggiormente articolato di Siri cominciano così a giungere conferme dai carteggi da questi intrattenuti con varie figure del mondo della Chiesa e della politica, nei quali, in molti casi, emerge l’immagine dell’arcivescovo di Genova alle prese con l’evoluzione – sempre più rapida – delle forme di vita sociali, alla ricerca di strategie di dialogo per nulla fossilizzate, anzi piuttosto creatrici. Se la solida formazione teologica, e una visione di Chiesa fortemente legata al concetto di fedeltà, indussero l’arcivescovo di Genova a mostrare sempre attenzione e anche cautela verso forme di rinnovamento che ai suoi occhi avrebbero potuto in parte “tradire” il senso profondo del magistero – e in ultima analisi il retto modo di essere cristiani -, appare oggi sempre più ingeneroso considerarlo per questo arroccato su di una condizione di isolamento dal popolo di Dio, al quale si dedicò invece con profondo senso di missione.
È questa propriamente la dimensione sociale di Siri che, ad esempio, ho potuto recentemente constatare in un carteggio con l’allora arcivescovo di Milano, il futuro papa Paolo VI, relativo all’impatto ed alla valutazione dell’opera di Fellini “La dolce vita“, dove a mio avviso non paradossalmente, Siri appare decisamente più aperto ad affrontare la realtà civile, anche nelle sue degenerazioni sotto il profilo morale, del confratello nell’episcopato (si veda l’art. di Antonio Carioti, E Siri difese «La dolce vita» dopo le censure di Montini – “Corriere della Sera”, 9 settembre 2008).
Seguendo questa linea di indagine sarà forse possibile in futuro recuperare un profilo più completo e articolato del card. Giuseppe Siri, al di là di quelle letture che hanno comodamente smussato angoli e dissolto sfumature pur presenti nelle sue convinzioni e atti, i quali invece costituiscono, soprattutto se letti alla luce dei codici comunicativi e comportamentali dell’episcopato del Novecento – che fu, in particolare, alle prese con la modernità -, un elemento essenziale di valutazione.