In un articolo su La stampa dell’11 settembre, intitolato «Mettiamoci d’accordo, la verità non c’è più» Gianni Vattimo spiega la filosofia dell’amico Richard Rorty e ne rileva l’aspetto decisivo: non si può più parlare di verità. Rorty lo diceva in modo secco: non si deve formulare una nuova teoria della verità – “perché di tutte conosciamo la menzogna”, già sosteneva Malraux –, è venuto il momento di cambiare discorso, di non porsi più queste domande che non hanno portato frutti socialmente utili. Vattimo riassume: la verità, intesa come un “sapere come stanno le cose” non serve a niente finché non ci cambia la vita. E questa è effettivamente la versione rortyana del pragmatismo (neo-pragmatismo), che oggi va per la maggiore nella nuova koiné naturalista della filosofia mondiale.



Il cuore dell’argomento è che la filosofia contemporanea ha stabilito che l’essere non determina il dover essere – secondo l’insegnamento di Hume –, la metafisica (le cose come sono) non determina le norme (come dobbiamo ragionare, comportarci, ecc.). Ma il fatto è che questa distinzione è una certa versione della verità, quella che si è imposta da Descartes in avanti, quella che divide pensiero e corpo, capire e fare e – ovviamente – sapere ed essere felici.



Curiosamente, proprio il pragmatismo originario (Peirce, James e Dewey) cercava con più o meno successo di attaccare questa posizione e di descrivere la verità in un modo più aderente all’esperienza. Per farla in breve, si voleva dire che per capire bisogna fare e non c’è fare che non sia impregnato di sapere. Il sapere senza fare è un vuoto razionalismo che non serve alla vita, il fare senza sapere è un cieco empirismo che la soffoca. Non è una scoperta di Dewey. Ogni educatore sa che uno ha capito se e solo se sa fare gli esercizi; d’altro canto, non si fanno gli esercizi per il gusto di farli ma per capire.



Ma rimaniamo all’esempio di Vattimo, che propone un caso più inquietante: “Se uno si ammala e gli viene spiegato che è malato perché le sue ossa si stanno erodendo, sarà felice?” Risposta: “No, a meno che gli si possa dare il farmaco che lo cura”. È qui che torna in campo il sapere e che il suo screditamento non sembra reggere: e se uno trova il farmaco che lo fa vivere e poi non “sa” per che cosa valga la pena vivere, sarà felice? (Ma secondo Vattimo questo non è sapere come stanno le cose, sono progetti). E se uno non può trovare il farmaco? Sarà felice di non porsi la domanda: “Perché succede questo? Che cosa significa? A che cosa serve?”

Ciò che non serve – e che purtroppo c’è ancora – è il sapere statico e astratto del razionalismo che ha generato tutte le ideologie degli ultimi secoli. Lo stesso razionalismo che alla fine, deluso dall’insufficienza delle proprie risposte, dice che non c’è risposta e guai a chi si pone delle domande sui fatti che accadono. Peccato che il “sapere” di chi vive qualsiasi esperienza sul serio – da chi fa scienza (“che cos’è questo?”) a chi lava i piatti a casa (“per chi lo sto facendo?”) – nasce dalla necessità di scoprire il significato che la vita porta con sé o dentro di sé (i fatti accadono lo stesso) e di cui – volenti o nolenti – siamo sempre curiosi collaboratori.

L’opzione fondamentale sta qui: Vattimo e Rorty pensano che questo significato sia un progetto che ciascuno inventa e su cui mettersi d’accordo (secondo i criteri di chi? Si ha sempre paura che alla fine vinca semplicemente il più forte, che fa agli altri la «carità» di elargire cultura, metodi, storia ecc.), mentre l’esperienza comune – e una filosofia che voglia rispettarla – dice che il significato si trova dentro la realtà e che ciascuno può provare a trovarlo. È l’antico scontro tra nominalismo e realismo. In questa seconda ipotesi vince solo chi si pone più domande.

(Giovanni Maddalena)