I tedeschi coniarono l’espressione «die unbewältigte Vergangenheit» (il passato non superato) per indicare i conti non ancora chiusi con l’orrore del nazismo. Dal 1945 numerose e virulente sono state in Germania le polemiche pubblicistiche e storiografiche sulla massima tragedia nazionale, sulle sue radici e cause, sul suo posto nella storia tedesca, sulle responsabilità individuali e collettive. Non starò qui a rievocarle e riassumerle, anche perché anche i nostri giornali ne hanno talvolta parlato (riferendo, ad esempio, degli aspri dibattiti suscitati dalle tesi di Ernst Nolte sul nesso di causalità che a suo avviso legherebbe il GULAG sovietico ai campi di sterminio nazisti). Voglio invece far cenno della riflessione degli scrittori sulla barbarie nazista, menzionando lo splendido racconto di Alfred Andersch Pentimento completo («Vollkommene Reue»). Il titolo già chiarisce il tema della breve narrazione, e getta luce sull’essenziale problema (morale, ancor prima che politico e storico) del rapporto con il passato di crudeltà e d’obbrobrio. Dinanzi a misfatti indicibili e smisurati, il rimorso e il pentimento rappresentano la sola catarsi e la via della rinascita morale e politica. E infatti, inginocchiandosi sul monumento che ricorda la tragedia dell’olocausto, il cancelliere socialdemocratico Willy Brandt volle compiere un gesto dal chiaro e nobile valore simbolico, chiedendo perdono per colpe che non erano sue personali, bensì collettive.



Nel complesso, la Germania ha saputo regolare i conti con il nazismo sotto il profilo antropologico, politico e storiografico (al di là di pochi anziani nostalgici e malgrado sporadiche esibizioni dei macabri simboli del passato). I tedeschi di oggi poco o nulla hanno in comune con gli uomini che consentirono l’ascesa al potere di Hitler e, poi, sostennero la dittatura nazionalsocialista, in maniera attiva o passiva, fino alla catastrofe finale. Gli storici hanno studiato con alacrità e rigore, discutendo e polemizzando liberamente, l’atroce passato del loro paese: innumerevoli, e solide, sono le opere generali, le monografie, le raccolte di testi e documenti, che essi ci hanno offerto e che ci consentono di seguire l’avvento al potere di Hitler e di conoscere il regime da lui instaurato. Il sistema politico democratico ha retto ad eventi colossali e burrascosi, come il crollo della Germania comunista e i difficili problemi della riunificazione. Anzi, il miracolo della perpetuazione dell’antico sistema dei partiti, in un drammatico frangente storico, si spiega proprio con la solidità interna, politica e intellettuale, d’un paese che, pur con tutte le sue magagne, s’era mostrato capace di vincere l’importante sfida con la storia, di domare cioè il cupo retaggio nazista.



Anche in Italia il fascismo è morto e sepolto, né potrà mai più risorgere. Ma, a differenza della Germania, dove nessun uomo pubblico oserebbe far l’elogio del nazismo, da noi possono far parte del governo uomini i quali, fino a poco tempo fa, si dicevano fervidi ammiratori del regime mussoliniano. In Italia vengono ricordati e celebrati, con parole di rispetto, i soldati che combatterono nella Repubblica sociale a fianco degli aguzzini tedeschi. Eppure, anche l’Italia è un paese antropologicamente, politicamente ed economicamente assai mutato rispetto a settant’anni fa. Il lungo regno democristiano, con tutte le sue pecche, ha garantito mezzo secolo di pace, di libertà politica e di prosperità economica. Come spiegare allora l’anomalia del Bel Paese, in cui vengono strombazzati ad ogni piè sospinto i valori antifascisti e, nondimeno, hanno voce in capitolo anche gli eredi del partito neofascista? Beninteso, non c’è motivo di dubitare della fedeltà alle regole democratiche non soltanto dell’onorevole Fini (il quale ha reciso, nella maniera più netta, ogni legame con le radici fasciste), ma anche del ministro La Russa e del sindaco Alemanno (malgrado le loro ingenue o incaute sortite). Resta però il fatto che, negli ultimi anni, hanno occupato importanti cariche pubbliche persone legate, personalmente o sentimentalmente, al fascismo mussoliniano. Pur avendo anche un risvolto positivo, in quanto tappa essenziale nel loro cammino verso la democrazia, l’ingresso nel governo e nelle istituzioni di esponenti del vecchio MSI di Almirante non può non suscitare inquietudine e interrogativi sulla tempra morale della nazione italiana.



Il problema è ingigantito dal fatto che nel governo e nelle massime istituzioni sono entrati uomini appartenenti a formazioni politiche sorte dalla frantumazione del vecchio PCI. In anni non tanto lontani, occupò la poltrona di palazzo Chigi un convinto paladino della «tradizione comunista», che s’era mostrato perplesso dinanzi alla coraggiosa svolta di Occhetto; ed è stato ministro finanche un uomo politico il quale, ancor oggi, desidererebbe custodire in Italia la mummia di Lenin!

Neppure dai comunisti e dagli ex comunisti (o, almeno, da molti di loro) ci dobbiamo attendere minacce alla democrazia: mezzo secolo di libera vita parlamentare ha ingentilito anche gli epigoni di Togliatti. È tuttavia sbalorditivo il farisaico silenzio dei politici e degl’intellettuali comunisti sulle cupe vicende della loro storia. Coloro che, a lungo, andarono fieri del «legame di ferro» con la barbarie sovietica e che, nel 1956, plaudirono al massacro degli eroi magiari, in fondo, non meritano un giudizio meno severo di quello che il tribunale della storia ha emesso nei riguardi dei fascisti di Salò.

Il fascismo italiano perì, ignominiosamente, nel 1945. Se oggi, in Italia, da pulpiti autorevoli si tenta di abbellirne la memoria, è perché il paese non s’è liberato dall’altro macigno che grava sulla coscienza della nazione: il comunismo togliattiano. Travolto dalla crisi generale dell’impero sovietico, il vecchio PCI cominciò a decomporsi; ma le sue membra sfatte han seguitato ad intorbidare la scena politica e culturale. Che l’intero sistema politico italiano sia crollato all’improvviso, come un castello di carta, sotto la spinta di fattori internazionali (a differenza di quanto accadde in Germania, pur vicinissima al teatro degli eventi), è la riprova dell’anomalia italiana e del peso negativo che il PCI, con il suo mastodontico apparato organizzativo e culturale, ha avuto nel nostro paese. Potremo dirci un paese civile e normale solo quando avremo meditato senza acrimonia, ma con sincerità e onestà, su entrambe le catastrofi politiche, intellettuali e morali del nostro Novecento.