L’interessante dibattito aperto dall’articolo di Pigi Colognesi sul nesso libertà-appartenenza rimanda alla radice della questione antropologica e a tutta la vicenda culturale della modernità.

Prima di entrare nello specifico culturale del sorgere di una concezione di libertà come assenza di legami, è importante però mostrare che il realismo dell’esperienza effettiva dell’uomo dimostra che l’essere “legati” è un dato originario, perché l’esistenza stessa inizia dalla relazione con i propri genitori, evidenziando che non ci sarebbe neppure la libertà se non a seguito dell’essere generati gratuitamente come figli. Nessuno esiste per libera scelta autonoma, o perché qualcuno gliene abbia chiesto il permesso, perciò non v’è nulla di più falso dell’affermazione di una pretesa autosufficienza svincolata dall’appartenenza ad una comunità che precede. Anzi, crescendo, l’uomo sperimenta la dipendenza da persone che lo accudiscono, lo crescono e lo educano permettendogli di raggiungere una maturità di giudizio tale da affermare una sua propria identità personale, che può nascere solo dal confronto con qualcuno e qualcosa che sono dati e non costruiti dalla propria volontà. Si deve quindi dire che la libertà esiste solo in rapporto con una storia di volti precisi cui si appartiene, finché l’io non prende posizione su quali volti tenere nella sua ideale “rubrica di indirizzi” significativi e quali cancellare o dimenticare.



L’evidenza prima è dunque che l’Uomo è fatto da un’Origine che non sta in lui, e che la prima libertà è nel riconoscere tale origine legandosi ad essa (come un alpinista che è più libero se rimane attaccato alla montagna con la corda di sicurezza, piuttosto che se presume di fare da sé senza appigli e poi precipitare nell’abisso). Perciò libero è chi aderisce alla Verità del proprio essere, anche se tale libertà non va confusa con il libero arbitrio, secondo la nota distinzione di S.Agostino, per cui se la libertà è adesione al Bene definitivo, il libero arbitrio è la possibilità di scelta esercitata nella valutazione dei beni concreti come preferenza e predilezione per ciò che avvicina di più all’unico Bene Supremo. Infatti la libertà finita dell’uomo non può scegliere tutto contemporaneamente, per cui sarebbe impossibile fare una scelta sensata senza una ragione valida che fa preferire una scelta alle altre: la libertà impedisce l’indifferenza ed “obbliga” ad orientarsi verso ciò che meglio realizza il desiderio integrale dell’io, sapendo che ogni opzione può approssimare al Bene o condurre all’abisso.



Ciò era evidente ai monaci che facevano del “quaerere Deum” lo scopo di ogni ricerca in quanto Dio è precedente al loro stesso cercare, ma comincia a divenire meno chiaro quando all’inizio dell’età moderna l’uomo vuole diventare creatore del proprio destino e dominatore della Natura. Lo ricorda Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi al n.16, quando cita Bacone come l’iniziatore di un nuovo rapporto tra conoscenza ed azione. La “nuova scienza” intesa come potere di prevedere e dominare i fenomeni della Natura dà l’illusione che la libertà dell’uomo possa costruire o trasformare la realtà secondo un suo arbitrario progetto, sino al punto che la redenzione non viene più attesa dalla fede come riconoscimento del legame di salvezza istituito da Dio, ma da questo nuovo nesso tra l’osservazione scientifica e i risultati della prassi tecnica. Nasce così l’idea di progresso come emancipazione da tutte le dipendenze, che sfocia dal XVIII secolo in un’acritica fiducia nella rivoluzione, intesa come cambiamento totale che distrugge ogni legame di appartenenza al passato e alla tradizione.



E’ evidente che la libertà così intesa è frutto di un uso della ragione puramente strumentale, mentre “la ragione diventa umana solo se è in grado di indicare la strada alla volontà e di questo è capace solo se guarda oltre se stessa” (Spe Salvi n.23). L’esperienza dice che l’uomo non è salvato dalle sue idee o dalle cose, ma solo dall’amore sperimentato dentro una relazione personale con un Tu, come il bambino che si sente al sicuro nell’abbraccio della madre e non nel fare i capricci. Nessuno crea una strada verso la meta, ma semmai sceglie di percorrerla quando è certo che la meta c’è e non dipende da lui, per cui è astrazione intellettualistica pensare che l’uomo sia più libero se ha tolto ogni dipendenza.

La radice storica, la tradizione, l’appartenenza alle comunità naturali sono i legami che rendono possibile l’esercizio del libero arbitrio come verifica di quale ipotesi di vita valga la pena seguire: è più libero chi accetta di dipendere da uno che si prende cura di lui piuttosto di uno che muoia abbandonato perché nessuno interferisce sulla sua vita (si pensi alla pretesa di normare il destino dei malati terminali piuttosto che rispondere alla loro domanda di compagnia!).

Ma la vera crisi della libertà non nasce solo dalla schiavitù degli idoli o delle ideologie (Chesterton diceva che il vero guaio dell’uomo moderno è di credere proprio a tutti!), ma anche dal non avere “luoghi affidabili” cui legarsi per sperimentare la bontà delle proprie scelte, dall’assenza di relazioni indissolubili “per sempre” che facciano scoprire quel qualcosa di più grande per cui l’io è fatto. Si diventa, invece, più liberi se si desidera “allargare la ragione” sino a scoprire che il rapporto con Dio non solo non mortifica l’uomo (come proclamava l’ateismo di Marx, Nietzsche o Freud), ma “risveglia la mia coscienza, perché essa non mi fornisca più un’autogiustificazione, non sia più un riflesso di me stesso e dei contemporanei che mi condizionano, ma diventi capacità di ascolto del Bene stesso” (Spe salvi n.33).

Per questo il Cristianesimo, proponendo la libertà come comunione (che è il legame più profondo) con Dio e con gli uomini svela l’essenza stessa della libertà come appartenenza.