Se la Commedia di Dante è potuta diventare, nel giudizio soprattutto degli studenti, un’opera noiosa e difficile da affrontare, non è perché si tratti di poesia troppo alta per essere compresa; è invece stato soprattutto colpa dei professori, che hanno «rubato la vita al poema dantesco». Parola di Robert Hollander, professore di Letteratura Europea all’Università di Princeton e tra i massimi esperti mondiali della poesia dantesca, che nei giorni scorsi ha preso parte al Meeting di Rimini per parlare dell’“avventura dell’io in Dante”. 



Professor Hollander, la poesia di Dante si caratterizza soprattutto per il fatto di parlare delle “cose ultime”: ma noi, oggi, siamo in grado di recepire una poesia di questo genere? 

In effetti questo è il problema fondamentale con cui il dantismo da sempre deve fare i conti, vale a dire la nostra incapacità, o, meglio, il nostro rifiuto ad affrontare le ultime questioni. Dopo il Romanticismo abbiamo avuto critici come De Sanctis e Croce, uomini di grande stile e potenza intellettuale, che però hanno operato una sorta di riduzione, nell’intenzione di lasciarci un Dante più simile a noi. Questo almeno per quanto riguarda l’Inferno; difficilmente la stessa operazione sarebbe riuscita per il Paradiso, e direi anche per il Purgatorio, cantiche più difficili da affrontare per chi rifiuti di considerare attentamente la posizione teologica di Dante. Parlando dei grandi eroi dell’Inferno (Francesca, Farinata, Ulisse, Ugolino etc.) è invece più semplice immaginarci un Dante come noi. 



E questa è secondo lei un’operazione non corretta dal punto di vista critico? 

È secondo me un grandissimo sbaglio. Dante ci porta al confronto con questi personaggi certamente con l’intento di farci capire che loro sono come noi, ma in quanto peccatori. Dante sperava che ognuno di noi, leggendo ad esempio il caso di Francesca, vedesse che lei dopo tutto era una peccatrice, e che aveva fallito riguardo alle cose importanti della vita: ha scelto cioè una via peggiore, che condanna la persona che la segue. Questa potrebbe sembrare una cosa ovvia, ma leggendo la critica degli ultimi centocinquant’anni non è affatto chiaro che la maggioranza dei critici capisca questo. 



Elemento centrale della poesia dantesca, fino all’ultimo gradino del Paradiso, è la figura di Beatrice, e la concezione dell’amore che Dante matura e approfondisce lungo tutto il suo percorso: come possiamo capire questa idea così grandiosa dell’amore? 

È la domanda più importante per capire l’intera opera dantesca. Nella Vita Nuova c’è un poeta che ha deciso di tracciare una nuova pista – post-guinizzelliana e post-cavalcantiana – secondo cui la donna non è semplicemente una donna, e non è neppure vicina ad essere un angelo: è una persona viva che assomiglia in tutto a Gesù Cristo. E questa è un’idea pazzesca! Dante inizia dunque questo percorso per sondare fino in fondo, fino all’ultimo le possibilità che la poesia per una donna può offrire. E nessuno aveva fatto questo prima di lui: c’era san Francesco, che però parlava direttamente di Dio. È una pista completamente nuova, quella che Dante ha deciso di aprire; e per di più lo fa scrivendo anche un auto-commento, che è una cosa che non si deve mai fare! Da questo possiamo capire come la carriera poetica di Dante sia caratterizzata dal dedicarsi alle cose impossibili e proibite. Ecco dunque che abbiamo la Vita nuova, un’opera in cui, soprattutto alla fine, possiamo intravedere il fatto che Beatrice rimanda a Gesù Cristo. E poi, il silenzio. 

Che cosa accade a Dante tra la Vita Nuova e la Commedia? 

Come sappiamo, verso il 1304 si colloca l’inizio della composizione del Convivio e del De Vulgari eloquentia: in entrambe queste opere Dante è un uomo cambiato. È un momento molto difficile e complesso del percorso dantesco, segnato dal tentativo di iniziare una nuova carriera come poeta, che potremmo definire più convenzionale. L’amore nel Convivio, infatti, non ha più nulla a che fare con la concezione della Vita Nuova: ora la donna è la filosofia, e non c’è eresia in questo, è una cosa totalmente accettabile.

Ma ecco che a un certo punto, nel 1307-1308, Dante decide di abbandonare il Convivio – lasciando interrotto anche il De Vulgari eloquentia – e dà inizio alla Commedia: riprende cioè il percorso della Vita Nuova, per portarlo a compimento. 

È talmente forte la continuità tra le due opere che si è addirittura ipotizzato che la conclusine della Vita nuova sia stata scritta quando già Dante aveva in mente la Commedia 

Questo è sicuramente falso, oltre che filologicamente indimostrabile: la Vita Nuova è opera compiuta, integra. Quello che bisogna capire è che già al tempo della Vita Nuova Dante aveva in mente quanto poi ha compiuto nella Commedia. Ma il fatto è che, dopo aver intrapreso questo percorso, ha in un certo senso realizzato che quella era una pista troppo difficile, che la gente non poteva capire, e se anche l’avesse capita, non avrebbe però potuto amarla. Troppo difficile accettare una soluzione di questo genere, cioè una donna modellata su Gesù Cristo. E anch’io, dicendo questo di lui, sono quasi imbarazzato! Non è una cosa che si fa; e non per nulla non è stato più fatto. E invece Dante nella Commedia ritorna a proprio su questo, ritorna su Beatrice-Cristo. Il resto è la storia che conosciamo. 

Nonostante tutte le difficoltà della poesia dantesca, le letture della Commedia negli ultimi tempi stanno registrando un grandissimo successo, prima con Vittorio Sermonti e poi con gli spettacoli di Roberto Benigni. Come spiega un tale successo, per un autore che forse per troppo tempo abbiamo relegato ai banchi di scuola? 

Se questo è accaduto è per colpa nostra: noi professori siamo i responsabili, io incluso. Siamo noiosi, e rubiamo la vita del poema dantesco. Non saprei dire bene il perché: forse perché è un poema molto complesso, e ha bisogno di uno studio serrato. Il modo principale con cui Dante è stato rubato della sua essenza, e di cui ho parlato nel mio primo libro, Allegory in Dante’s «Commedia» (1969), è il fatto che lo si è voluto ridurre a poeta allegorico, e sostanzialmente, per questa strada, a un poeta da bambini. È Dante stesso, invece, a darci la soluzione di questo problema: egli spiega infatti che esiste un’allegoria dei teologi e una dei poeti, e nell’epistola a Cangrande dice chiaramente di aver seguito nella sua poesia l’allegoria dei teologi. È una cosa ben diversa: non c’è allegoria poetica in Dante (a parte alcune immagini, come ad esempio le processioni nel Paradiso terrestre) e la Commedia è scritta esattamente come se fosse storia. Questa è la cosa più importante: bisogna leggere Dante come se tutto fosse accaduto. Virgilio non è la ragione, Beatrice non è la fede: Virgilio è Virgilio, Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante: sono persone storiche, e questo è tanto evidente quanto fondamentale. 

Possiamo però dire che questa interpretazione corretta di Dante sta a poco a poco facendo breccia, e diffondendosi anche tra gli studenti. 

Io ho trovato, personalmente, che i ragazzi universitari sono pronti ora per il nuovo Dante, per il Dante storico, non diverso da noi. Un uomo sincero, credente, con una sicurezza di se stesso, e con un senso maturo della letteratura. Egli, infatti, leggeva Virgilio come nessun altro lo avrebbe letto, e così anche Ovidio, e i Vangeli. Leggeva tutto nello stesso modo: anche Ovidio è storicizzato. Dante crede nella storia, e ama pensare in quanto uomo che è dentro alle vicende del mondo; ecco perché è anche poeta politico. 

Questo modo di leggere i classici, Virgilio e Ovidio, non rappresenta però una sorta di approccio “immaturo”, rispetto ad esempio a quello che poi metteranno in atto gli umanisti? 

Secondo me è invece più maturo, perché non allegorizza; gli umanisti, invece, da questo punto di vista hanno ammazzato gli autori. Loro hanno fatto un’altra cosa, hanno cioè riscoperto il testo, e questo è un contributo veramente enorme.

Per capire bene Dante sotto questo aspetto basta pensare alla corrispondenza con Giovanni del Virgilio, il quale era professore e leggeva gli autori con il filtro dell’allegoria; le quattro egloghe sono documenti molto affascinanti, perché ci danno il senso di cosa sia l’accademismo. Dante invece non era un professore, e il pubblico che aveva in mente era la gente comune, certamente anche acculturata, ma comunque un pubblico borghese, fatto di lettori appassionati. È un autore che parla di cose grandi, delle “cose ultime”, come detto all’inizio, ma rimane al tempo stesso un poeta profondamente popolare.